Il contratto della mamma expat
Tempo fa, su un sito molto carino che seguo da tempo, ho trovato questo post, una sorta di contratto immaginario che un notaio fa firmare ad una donna che si appresta a diventare expat.
Prima di trasferirmi in Svizzera ( e non in una terra lontana come la protagonista di questo post), ho cercato ovunque testimonianze di donne che come me, avevano “chiuso” la loro vita nella terra natia e si apprestavano ad aprire un altro capitolo, totalmente ignoto, da un’altra parte, lasciando il lavoro, la famiglia di origine, per seguire la carriera del marito. Donne che, da un giorno all’altro, si sono ritrovate a dover gestire una nuova vita ( che non avevano scelto), in un posto sconosciuto, mantenendo però alcune cose della vecchia vita….come marito e figli!
Cioè, non abbiamo fatto come il protagonista de “Il fu Mattia Pascal” di Pirandello, che si finge morto e si rifà una vita da zero. No, noi abbiamo ricominciato da zero, mantenendo strascichi della vita precedente, e cercando di inventarsi una nuova dimensione avendo però più ostacoli davanti e senza il minimo aiuto.
Però, “Beati voi che abitate all’estero“, è la frase che più di ogni altra ricorre i primi mesi, quelli dove tu, donna, ex lavoratrice, moglie e mamma stai in crisi più totale perché: non capisci ancora la lingua e le usanze del posto e la gente del luogo non ti aiuta per niente; stai sempre da sola con i bambini che adori si, ma anche meno sarebbe meglio; gestisci mille cose da fare perché per te è tutto nuovo e ti ci vuole un pò di tempo per capire come si fa.
A fatica, con enorme fatica, riesci a gestire, nell’ordine: la malinconia, la rabbia per il lavoro che hai lasciato; le lamentele dei genitori che si sono visti sottratti i nipoti “che prima vedevano tutti i giorni ora chissà quando li rivedremo“; e tutta una serie di frustrazioni che ti fanno sentire la persona più inutile della terra.
Tutto ciò potrebbe sfociare in una depressione che parte già in stato avanzato, ma fortunatamente noi donne non siamo così fragili. Ed ecco che, dopo un momento (piuttosto lungo) di smarrimento, aiutati magari da un buon bicchiere di vino rosso (anche due), e magari dopo aver rinfacciato al marito che ci ha trascinato in tutto questo ogni qualsivoglia frustrazione ( che poi, è vero, la scelta l’abbiamo fatta noi, quella di seguire lui, però pure lui fa tutto così facile…), siamo pronte per reinventarci.
Quanto ho sentito abusare di questa parola: reinventarsi. Prima l’ho odiata, poi l’ho amata a dismisura, poi non l’ho più considerata, ora non la pronuncio più. Perché è vero, la mia vita è cambiata totalmente, ma non mi sono reinventata: sono sempre io.
Ho cercato nuovi obiettivi, ho trovato un modo diverso di organizzarmi, ho percorso da sola nuovi sentieri che fino a poco tempo prima mai avrei pensato di intraprendere.
Ho rischiato, me la sono cercata, a volte mi è andata bene, altre devo ancora capire. Ma su una cosa ho puntato fortemente nel mio momento di sconforto più buio: cercare di essere felice, sempre.
Essere felici è facile, ma imparare a non essere infelici può essere arduo.
(Wayne Dyer)