La storia di Saman Abbas nel libro del reporter Giammarco Menga

La storia di Saman Abbas nel libro del reporter Giammarco Menga

Saman Abbas. Diciotto anni e un sogno nel cassetto: essere libera. Un sogno pagato con la vita.

Un matrimonio combinato pianificato, ma non accettato. Il deciso rifiuto all’idea di non poter essere artefice del proprio destino. Il tentativo di fuga da casa. La scomparsa. Il silenzio per 18 lunghi mesi. E poi il tragico epilogo: il corpo ritrovato in una cascina abbandonata a Novellara, in Emilia Romagna.

Saman è una ragazza di origini pakistane. Uccisa dai suoi stessi familiari. Che dicevano di amarla. Ma le hanno tolto la vita.

La vicenda di cronaca

É la notte tra il 30 aprile e il 1 maggio. La telecamera di un’azienda agricola inquadra una ragazza che esce di casa. Il volto coperto dal velo, la tunica fino alle ginocchia. Un’ora dopo, stessa inquadratura. Stessa giovane donna che adesso indossa dei jeans, delle scarpe da tennis e una giacca in pelle. Dietro di lei camminano spediti i suoi genitori. Cinquantotto secondi dopo l’occhio elettronico riprende la madre che rientra in casa, seguita dal marito. Nessuna traccia di Saman.

Aveva appena raggiunto la maggiore età e aveva già provato a fuggire ripetutamente da una famiglia che non le consentiva di studiare e di scegliere di chi innamorarsi.

Un “delitto d’onore”, quello di cui è rimasta vittima Saman Abbas, che ha scosso l’Italia, mettendo in luce le barriere, culturali e di genere, che attanagliano alcune donne limitate fortemente nella loro libertà di espressione, di essere, di decidere della propria stessa vita.

Per la sua morte sono stati condannati all’ergastolo i suoi genitori, Shabbar Abbas e Nazia Shaheen. Lo zio, Danish Hasnain, ha ricevuto una pena di 14 anni.

Un omicidio brutale sulla cui responsabilità però aleggiano ancora dubbi e domande. Troppi.

A ripercorrere tutte le tappe di questa terribile storia il reporter di Quarto Grado, Giammarco Menga:

Ci sono sicuramente delle responsabilità di più persone rispetto a quelle individuate dalla sentenza di primo grado, che va in ogni caso rispettata. Ma per me i protagonisti della vicenda non sono solo i condannati. Ci sono i “famosi” due cugini (per cui erano stati chiesti 26 anni) che sono stati assolti. Ma anche delle figure che ruotano intorno a questa famiglia clanica che, a mio parere, erano sulla scena. Il fratello del padre di Saman, in sintesi, non poteva essere solo su quel viottolo e fare tutto da solo. Sia la fase dell’omicidio. Sia quella di occultamento del cadavere. C’è il dettaglio, per esempio, della compatibilità di due pale che poi è stata ridotta a una in fase di dibattimento. E ci sono tanti altri elementi, che io snocciolo nel libro, che spiegano come sia altamente difficile ipotizzare che ci fosse solamente lo zio sul luogo del delitto.

Novellara. Luogo del ritrovamento del corpo di Saman Abbas

Saman, affidata ai servizi sociali dopo aver espresso paura per la sua vita, era tornata a casa poco prima di scomparire. Non poteva certo immaginare che quella sarebbe stata l’ultima volta.

Ad incastrare, tra gli altri, i suoi familiari, è stato il fratello Alì Haider, testimone chiave di quanto avvenuto nell’ultima sera di vita della sorella. E poi gli stessi assistenti sociali. I vicini. E altri parenti.

Nel motivare la condanna dei genitori (all’ergastolo) e dello zio (a 14 anni), la corte d’assise di Reggio Emilia ha spiegato che la 18enne pakistana fu assassinata perché si oppose a un matrimonio combinato ma perché il giorno dopo aveva in programma di lasciare la famiglia e partire con il suo attuale fidanzato.

La ricostruzione degli ultimi attimi di vita di Saman, le varie fasi processuali, le indagini, unitamente ad alcuni dettagli inediti della storia non noti al grande pubblico, si susseguono nel romanzo di Giammarco Menga dal titolo “Il delitto di Saman Abbas. Il coraggio di essere liberi”.

Un episodio che mi fa piacere accennare è la ricostruzione puntuale, mai raccontata, delle varie fasi della prima fuga verso la libertà di Saman a giugno del 2020, quando partì per andare a trovare il suo ragazzino dell’epoca, in Belgio. Una fuga d’amore e di libertà, descritta nei particolari. Un passaggio emozionante da scrivere perchè prologo dell’intera vicenda.

Una vicenda il cui epilogo è tragico e senza appello.

Mi ricordo che era passato un anno e mezzo dalla sua scomparsa, mi racconta Giammarco Menga. Era novembre del 2022. Mi arrivò una telefonata di primissima mattina. Era un sabato, il giorno dopo la puntata di Quarto grado. Mi fiondai a Novellara e capì subito che era successo qualcosa di grosso perché la zona era transennata, un’area a cinquecento metri dalla casa di Saman. C’erano le forze dell’ordine, c’era tantissimo movimento. Quello è stato un momento durissimo anche da raccontare. Era la chiusura di un cerchio.

Saman Abbas

Dopo un anno e mezzo c’era finalmente la possibilità di dare degna sepoltura a una ragazza che era rimasta sotto terra per un metro e mezzo da diciotto mesi. Al sentimento di sgomento per la tragedia della morte di una ragazza di 18 anni si univa il ribrezzo nei confronti della crudeltà con cui era stata uccisa e poi sepolta in quella maniera così barbara.

Saman Abbas e la sua lotta per la libertà

Coraggiosa, determinata, con una forte volontà di auto determinazione. Una personalità indipendente, desiderosa di vivere secondo i propri desideri e non secondo le aspettative della sua famiglia e delle tradizioni culturali a cui era legata. Ferma e risoluta.

Saman era una ragazza in cerca di se stessa. Non ha trovato nel momento in cui ne aveva bisogno qualcuno che le desse gli strumenti giusti per leggere il mondo e quello che le stava accadendo. Era in una fase di costruzione del sè in cui stava cercando di tenere insieme sia ciò che di buono c’era nel suo mondo di origine, quello orientale, sia quello che le piaceva del mondo occidentale. Purtroppo non ha fatto in tempo a diventare chi voleva essere.

La tragica fine di Saman Abbas ha sin da subito sollevato riflessioni profonde su come società diverse, sia in Oriente che in Occidente, affrontino in maniera diametralmente opposta il conflitto tra tradizioni culturali e diritti umani. La lotta di donne come Saman è simbolica di una battaglia più ampia per l’uguaglianza di genere e la libertà personale.

Il coraggio di essere liberi”, mi spiega Giammarco, è un sottotitolo scelto con la Newton Compton, la mia casa editrice, che rappresenta la sintesi della volontà di Saman che poi è quella comune a tante altre ragazze: combattere per essere libere. Perché andare contro la propria famiglia e contro i dettami di una cultura così retrograda è solo un atto di coraggio ed è quello che alla fine Saman ha pagato con la vita.

Può essere una colpa innamorarsi e scegliere liberamente il proprio partner? Lo è in alcune società. Un dato di fatto di cui non si può non tener conto quando si affrontano vicende del genere. La storia di Saman Abbas evidenzia lo scontro tra valori tradizionali e moderni, tra culture diverse. E dimostra quanto sia difficile per le famiglie immigrate conciliare le loro tradizioni con le norme della nuova società in cui scelgono di vivere. Spesso per bisogno, per necessità.

Si parla, infatti, sempre di storie di vita, prima che di storie di cronaca. Quella di Saman ha colpito un po’ tutti perché abbraccia anche questioni antropologiche e culturali (non a caso è finita in Parlamento). É una storia larga, larghissima sotto tanti punti di vista. Non è solo un fatto di cronaca, ma una vicenda che riguarda la cultura e quel concetto più ampio di integrazione di cui spesso si parla. Per me, confida Giammarco, è stato difficile affrontare e scrivere del fatto di cronaca senza considerare che bisognava confrontarsi con questa vicenda tenendo necessariamente conto anche di questi altri parametri. Il libro mi auguro, (questo era uno degli obiettivi), non è solo il resoconto di un cronista. Ho cercato di mettere insieme tutti questi altri elementi per far entrare il lettore proprio nell’essenza del caso Saman.

Il delitto di Saman Abbas. Il coraggio di essere liberi di Giammarco Menga

Un caso, quello del delitto di Saman Abbas, che ha sollevato il problema della protezione delle donne che si oppongono alle norme patriarcali e culturali. La ragazza pakistana, per esempio, si era rivolta ai servizi sociali, ma questo non è stato sufficiente a salvarla.

Io ho cercato in punta di penna di dare voce a Saman e di raccontare la sua storia visto che lei in prima persona non potrà mai farlo e questo libro è dedicato a tutte le ragazze come Saman che però possono ancora salvarsi. Questo è lo scopo ultimo del mio libro che per me ha un valore particolare. Oltre ai doverosi ringraziamenti per chi mi ha supportato dal punto di vista lavorativo (dirigenti e redazioni di Mattino Cinque prima e di Quarto grado poi), le due dediche principali sono ai miei genitori e alla mia fidanzata.

Anche lei, di origini musulmane, ha dovuto combattere per la sua libertà. Ha avuto una storia simile a quella di Saman e di cui non ho voluto parlare approfonditamente per rispetto nei suoi confronti, visto che sta vivendo una nuova fase della sua vita, dopo essere stata essa stessa sulle pagine dei giornali per la sua storia. Una dedica a lei era doverosa, perché è grazie a lei che ho avuto una visione di questa storia più completa. La mia ragazza mi ha spiegato delle dinamiche della cultura islamica che io non avrei mai potuto comprendere se non attraverso ai suoi occhi. Questo mi ha dato sicuramente una spinta in più a voler scrivere questo libro e, nei contenuti, mi ha regalato quelle sfumature di comprensione che non avrei potuto apprendere in altro modo.

Un libro, “Il delitto di Saman Abbas. Il coraggio di essere liberi”, che è frutto del lavoro giornalistico messo in campo da Giammarco Menga sin dall’inizio della vicenda, fino al tragico epilogo e passando per tutte le varie fasi dei procedimenti processuali che sono culminati nella sentenza di primo grado della Corte di Assise del dicembre 2023.

Per i rapporti che erano nati con tutti i protagonisti in campo (dagli avvocati agli imputati, dagli inquirenti a tutte quelle persone che gravitavano intorno a questa storia) ho capito, dopo il ritrovamento del corpo, che era veramente una storia su cui avrei potuto in qualche maniera lasciare una traccia importante per chi verrà. Soprattutto per quelle ragazze che spero potranno leggere la storia di Saman e ispirarsi alla sua lotta per la libertà. Per farlo, ho cercato di spogliarmi dal ruolo di cronista e di far uscire il cuore, l’anima. La mia è stata una scrittura il più possibile morbida, dolce, non sdolcinata, emotiva, elegante. Anche semplice affinché fosse accessibile a tutti.

La copertura mediatica della vicenda di Saman ha contribuito a portare alla luce il problema dei “delitti d’onore” e della violenza di genere. Come spesso accade, un unico caso è diventato simbolo di tanti casi del genere che spesso non conoscono e non conosceranno mai le luci della ribalta.

Il coraggio di essere liberi a volte si paga la vita. Saman non è solo il nome di una giovane donna strappata alla vita troppo presto, è un simbolo. Un simbolo di quel grido soffocato che tante altre donne, in silenzio, portano con sé. Ma tra queste ombre, grazie a Saman e a storie come la sua, una luce tenue comincia a farsi strada. Il suo ricordo continuerà a vivere nelle coscienze di chi, ogni giorno, sceglierà d’ora in poi, di non voltarsi dall’altra parte. Perché è lì, nel cuore delle nostre scelte, che possiamo cambiare il destino di chi ancora non ha voce.

Il vero onore non risiede nel controllo, ma nel permettere la libertà di fiorire.

#CaparbiamenteSognatrice

Segui DmU Magazine sulle nostre pagine social  Facebook, Instagram e Telegram.

Elisabetta Mazzeo

Elisabetta, classe 1981. Ogni 18 anni un cambiamento. Prima la Calabria, poi Roma, ora Zurigo. Domani chissà. La mia sfida quotidiana? Riuscire nell’impresa di essere contemporaneamente mamma, moglie, giornalista, scrittrice e ora anche blogger. Ore di sonno: poche. Idee: tante. Entusiasta, curiosa, caparbia, sognatrice. Scrivere è un’esigenza. Una lunga gavetta nei quotidiani e nelle tv locali, poi l'approdo come inviata di Sport Mediaset. Non ho dubbi: il mio è il mestiere più bello del mondo. Una passione prima che un lavoro. Oggi ricopro l'inedito ruolo di vicedirettore a distanza di Retesole, l’emittente che mi ha visto crescere umanamente e professionalmente. Divoro libri e due li ho anche scritti, mi nutro di storie di sport, ma non solo. Scatto e colleziono foto, mi alleno quanto basta per non sentirmi in colpa e in compenso macino chilometri armata di scarpe da ginnastica e passeggino. L'arrivo delle mie due figlie ha rimodulato le priorità della mia vita. E adesso è con loro e per loro che continuo a mettere le mie passioni in campo. #CaparbiamenteSognatrice

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *