Londra: andata e ritorno ai tempi del Coronavirus
Sono fermo all’aeroporto di Heathrow in attesa di poter ripartire. L’aeroporto è grande, molto moderno, praticamente deserto a causa del Coronavirus. I negozi, alimentari a parte, sono tutti chiusi, e gli spazi, già generosi, sembrano quasi eccessivi alla vista.
È una città quasi paralizzata quella che mi lascio alle spalle, ben diversa da quella che ho conosciuto a dicembre e rivisto a febbraio. E pensare che sono passati solo pochi mesi!
Londra sembra ancora presa alla sprovvista da questo virus che ha colpito anche la casa reale e il premier Johnson…È come se i londinesi non accettassero fino in fondo di dover cambiare la loro routine, o peggio dover rinunciare, anche minimamente, alla loro libertà. Lo si nota già dai piccoli dettagli: le poche mascherine, i guanti ancora più rari, la leggerezza con cui gruppi di persone formano capannelli, malgrado i tanti cartelli esposti. Solo l’invito a mantenere una certa distanza viene accolto positivamente, nella maggior parte dei casi: ma forse questa è una precauzione più affine all’approccio distaccato dei londinesi.
Eppure il coronavirus esiste, è qui fra noi e ha causato già molti danni nel Regno Unito. In primis i morti, è ovvio, il primo pensiero va a loro; ma sono tanti altri gli effetti prodotti dalla pandemia. La disoccupazione, per esempio: nel palazzo dove ho vissuto fino a stamattina, due ragazzi su sei sono stati licenziati – senza troppi convenevoli – per l’ondata di Covid-19. Sono rispettivamente un cameriere e una hostess d’albergo. Alcuni dei profili più colpiti dalla pandemia, come anche i baristi e tutte le persone che lavorano nel settore della ristorazione. Ne ho conosciuti tanti qui – è difficle entrare in un bar o un ristorante e non sentir parlare italiano – e molti hanno dovuto fare le valigie.
Il coronavirus ha davvero stravolto Londra. Se la vita di provincia si può ridurre alla solita routine domestica, a Londra restare chiusi in casa sembra quasi un sacrilegio: questa è una città da vivere, è un insieme di piazze, pub, musei, centri culturali, negozi…
E poi la tube, la metropolitana, vera protagonista della vita dei londinesi: le arterie e le vene di questa metropoli. Bloccata, ridotta, intasata. Quasi inservibile, se non per stretta necessità.
È una città falsata quella che ho vissuto – dalle quattro mura della mia stanza – negli ultimi due mesi, ed è impossibile non pensare a come sarebbe stato viverla in tempi normali, a come sarebbe stato godersi le giornate di sole nei tanti, bellissimi parchi cittadini. Ma non è stato così.
I miei piani, e quelli di tutti gli altri, sono stati stravolti dal coronavirus. Così è la vita: imprevedibile, spesso beffarda. Non resta che accettarla nel bene e nel male e andare avanti.
So di aver perso parte di un’esperienza, so di aver perso opportunità lavorative (come insegnante di lingua italiana), di aver perso momenti unici e occasioni di divertimento.
Ma so anche di lasciare alle spalle una città costosa, difficile, frenetica, indifferente, stressante, forse sopravvalutata.
Tra le altre cose, questa pandemia è stata anche una buona occasione per rivalutare i tanti lati positivi della vita in Italia.
Aniello