Ciao, sono un papà. Ed esisto anche io, sapete?
Buongiorno ci sentiamo.
Vocale.
Mandata fattura! Al solito fammi sapere quando fai il bonifico.
…ha commentato il tuo post Instagram.
…ha appena avviato una diretta.
Nota vocale. Altra nota vocale.
Ah Gabrié e tocca che ci sentiamo, eh.
Gentile Gabriele Ziantoni, la informiamo che in data odierna è stato addebitato sul suo conto il seguente pagamento Sepa Direct Debit. Le segnaliamo inoltre che il suo conto presenta al momento un saldo negativo. La invitiamo a sistemare l’eventuale scoperto.
Quando mi saldate le mie ultime due mensilità? Scusa se ti disturbo ma ho bisogno che si torni presto alla regolarità.
Nota audio.
C’è da registrare quello spot. Ci pensi tu?
Messaggio cancellato. Vocale.
Direttore oggi non vengo: ho 38 di febbre. Mandiamo una replica?
Sono le 7.40 di un giorno qualunque. Non dico “qualunque” perché mi piace vittimizzarmi, affidando a questo avverbio il messaggio subliminale di una vita noiosa e sempre simile a se stessa. Utilizzo il termine “qualunque” proprio perché, almeno al momento, non riesco a ricordare la parte del mese o della settimana in cui ci troviamo.
So che sono diventato papà. Che Giulia è con noi da qualche giorno. So che, dopo una notte insonne, ha smesso di piangere solo da due ore, chiudendo la bocca esclusivamente per poppare. So che Eleonora dorme e darei qualsiasi cosa purché non si svegli. E so anche che, nel momento in cui ho preso in mano il cellulare, posto alle mie spalle sulla testiera del letto, ho trovato: 2 chiamate non risposte, 26 messaggi di whatsapp, 7 mail e svariate notifiche social.
Le ho intralette tutte, scegliendo, con l’abilità di un giocatore di poker quali aprire immediatamente e quali rimandare di qualche minuto o di qualche ora, a seconda dell’ansia che mi attivano, tipo applausometro. So che alle 11 ho il primo appuntamento della giornata e alle 16 l’ultimo. So che il traffico sarà una merda perché ieri sera pioveva e so che devo fare anche il pieno alla macchina perché altrimenti rischio di rimanere a piedi, ché da domani c’è sciopero.
Quello che non so è se oggi la mamma di Eleonora lavora. Fosse già in viaggio verso l’ufficio, dovrei portare a far pipì anche Ulisse, povero cucciolo, che non esce da un po’ di ore. La cosa porterebbe via un po’ di tempo alle mie attività mattutine (sistemare la cucina sporca dalla sera prima, dar da mangiare ai gatti, pulire le lettiere, lavarmi!): ci sono da ricalcolare tutti i tempi. Tenendo conto anche del fatto che prima di raggiungere la radio, dovrò passare in banca a sistemare un paio di pratiche.
La mia nuova vita da papà
Ce la farò, ce la devo fare. Se non per me, almeno per la mia compagna. Perché io ho la “via d’uscita” del lavoro, Eleonora nemmeno quella. Per lei, quello di mamma, è un incarico senza soluzione di continuità: con la parola fine non contemplata. L’unica sua tregua arriva la sera, al mio rientro, quando devastato da un’intera giornata di chiacchiere e problemi da risolvere, ecco che mi ritrovo con Giulia in braccio. Nel cuore un amore smisurato, nell’anima un’unica speranza: che questa notte decida di addormentarsi un po’ prima.
Non sono speciale, credetemi. Non mi sento un eroe e non ho elencato le attività precedenti per prendermi l’applauso, scontatissimo, del pubblico. Sono un compagno normale: che si occupa della famiglia in tutti i sensi e non pretende, né chiede, un ruolo privilegiato.
Sono solo un papà.
Un papà che dopo un mese di convivenza con una figlia voluta come nient’altro nella vita, già sembra comprendere gli uomini che escono a comprare le sigarette per non tornare mai più. Comprendere non condividere, attenzione. Ché chi lascia un neonato solo con una mamma stanca e piena di preoccupazioni merita parecchi insulti, a mio avviso. Ma questa è tutta un’altra storia.
Sono solo un papà. Che vorrebbe il proprio ruolo riconosciuto o quanto meno farcito di dignità. Perché, e correggetemi se sbaglio, mi pare che in questo grande gioco che è la natività, quella del padre sia una pedina per niente contemplata.
Occorre una nuova narrazione
Giulia, mia figlia, la cucciola che mi dorme addosso proprio nel momento in cui sto faticosamente battendo al computer questo articolo/confessione, è nata il 31 dicembre 2022 a una manciata di minuti dal nuovo anno. Il parto non è stato semplice, ha richiesto ore di ricovero, una procedura d’urgenza e ha lasciato due genitori terrorizzati in una sala degenza, mentre il resto del mondo era impegnato a festeggiare.
Immaginate la scena surreale: i suoni ovattati dei fuochi d’artificio intervallano le grida del personale medico che si scambia auguri e accenna canzoni di Achille Lauro. A pochi metri di distanza, in una stanza fredda, soli, un uomo e una donna si chiedono perché la notte che avevano sognato si è trasformata in tutt’altro. In lontananza un tappo di bottiglia salta.
Fortunatamente siamo qui a raccontarla: tutto è andato bene e Giulia si è dimostrata una guerriera fin dai suoi primi minuti di vita. Quello che non è andato bene, in questi primi 30 giorni di conoscenza è stato il modo in cui il mondo MI si è approcciato. Semplicemente ignorando me e la mia nuova situazione. Spaventosa perché sconosciuta.
Come sta la bimba? Ed Eleonora? La fai riposare? Perché torni a casa così presto? Ma mica l’allatti te sta bambina! Oh, lo sai che i bimbi, i primi mesi, sono solo delle madri no?
Credetemi: non è egocentrismo o richiesta di attenzioni. E’ mera verità, unica giustizia. Ché io ci sto a lottare per i diritti di tutte le mamme, cercando di sensibilizzare l’opinione pubblica sul peso gravoso che ogni donna deve affrontare quando decide di mettere al mondo un figlio. Però, tutti devono avere i propri diritti. Tutti devono essere riconosciuti. Sempre. E per far sì che questo accada, occorre pensare ad una nuova forma di narrazione.
Poco spazio per i papà
Già molti mesi prima della nascita di Giulia lo avevo capito. Che fare il papà non sarebbe stato semplice, intendo. E non per tutte le novità che i novelli genitori si trovano ad affrontare. Ma per la mancanza di punti di riferimento, di esempi da seguire.
I nostri padri? Sono figli del secondo dopo guerra, con capifamiglia maschilisti e accentratori che, se gli è andata bene, hanno cominciato a parlargli solo in età adulta. Convinti dalla società dell’epoca che fosse giusto far mangiare le donne in cucina o attendere il parto della moglie, giocando a carte in bisca.
La rete? Quanti influencers o profili Social si dedicano esclusivamente al lato maschile della natività? Pochi. Pochissimi se escludiamo gli account ironici o sarcastici.
E i libri? Mai vista una bibliografia tanto scarsa. L’unica pubblicazione che mi ha dato un po’ di conforto è stata quella di Alessandro Volta autore di “Mi è nato un papà”. Opera per altro suggerita da un amico/collega che, evidentemente ,aveva incontrato le mie stesse difficoltà.
La conferma a questi sospetti è arrivata il giorno della nascita di Giulia: cominciato con lo sbattersi da un bar all’altro nell’attesa di notizie certe, proseguito con il tentativo di nascondermi in un anfratto dell’ospedale prima di essere “scoperto” da un infermiere e concluso in totale solitudine di fronte alla scritta “sala parto”. Abbandonato, gonfio di preoccupazioni, privo di informazioni e con, per di più, l’arduo compito di comunicare ai vari familiari eventuali esiti. Da ufficio stampa a neo papà il passo è stato davvero breve.
Il caso Pertini
La terribile storia del Pertini, accaduta a pochissimi giorni dalla nascita di Giulia, e della quale si è occupata in maniera meravigliosamente delicata la nostra Elisabetta Mazzeo, non ha fatto altro che far aumentare la mia rabbia. Di questo bambino morto soffocato a causa dell’incuranza di un personale medico non adeguato, ne ha parlato chiunque. Parenti, medici, giornalisti. L’unica voce assente è stata quella del papà. Che oltre a spiegare a grandi linee l’accaduto non ha aggiunto altro. O forse le sue frasi non state ritenute così interessanti da scriverci qualche articolo?
Perché, come già detto, in questo grande gioco che è quello della natività, la figura del padre ricopre un ruolo secondario. Trascurabile, ignorabile, forse addirittura sostituibile. E allora troviamola noi la forza di urlare al mondo che esistiamo anche noi e che anche il nostro compito è importante, oltre che cambiato negli anni.
Siamo papà. Abbiamo i nostri sentimenti, le nostre paure, le nostre preoccupazioni. Terrori che spesso nascondiamo dietro una poker face nemmeno così efficace: le nostre compagne sono già gonfie dei loro interrogativi, inutile aggiungerne altri.
Siamo papà. Siamo lavoratori, spesso Partite Iva. Non conosciamo malattie o ferie, figuratevi i congedi parentali. La nostra vita non si “ferma” nell’attesa che nostro figlio diventi grande abbastanza da poter essere portato al nido. Abbiamo obiettivi da raggiungere, standard da mantenere, gruppi di lavoro da coordinare. Telefonate preoccupate da gestire, pannolini da comprare, spese da effettuare, macchine da caricare, visite dal pediatra a cui non vogliamo mancare e km di strade da coprire sperando di poter fregare il tempo, guadagnando anche soli pochi minuti.
Siamo papà. Abbiamo chitarre appese ai muri a prendere polvere, libri fermi nel computer che chissà quando vedranno la luce, partite di calcio seguite attraverso la radio e film recuperati durante la notte, tra una colica e un cambio.
Siamo papà. Sappiamo stare un passo indietro e non vogliamo sostituirci a nessuno. Se ci incontri per strada, fai il favore: offrici un caffè e chiedici come stiamo. Apprezzeremo. Davvero.
Gabriele Ziantoni #DisperatamenteMalinconico
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