Lavorare meno, lavorare meglio.
Checco Zalone ci ha fatto sorridere con la sua ironia sul posto fisso. La parola “lavorare” sta assumendo nuovi significati. Una realtà che sembra non rispecchiare più l’Italia di oggi. Infatti, secondo recenti statistiche, quest’anno a lasciare il posto di lavoro soprattutto a tempo indeterminato è stato più di un milione di italiani. Il 31,7% in più rispetto all’anno precedente.
Effetto post Covid direbbe qualcuno e in un certo senso la pandemia ci ha messo lo zampino.
Il fatto di trovarsi di fronte ad una vita cambiata, chiusi obbligatoriamente in casa, lontano dagli affetti, con la paura di contrarre una malattia sconosciuta, ha fatto ripensare alla propria vita molte persone, giovani e meno giovani. Ha fatto riscoprire la voglia di essere felici e di non perdere tempo con cose che invece felici non rendono. E che non bisogna accontentarsi. Neanche del lavoro.
Alessandro Rosina, professore ordinario di Demografia e Statistica sociale nella Facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano e coordinatore del Rapporto Giovani dell’Istituto G. Toniolo, recentemente intervistato da La Stampa ha dichiarato:
«Il quadro che emerge, anche attraverso i dati che abbiamo raccolto dopo la pandemia, mostra che le nuove generazioni cercano un lavoro che non sia un adattamento al ribasso. Il lavoro deve valorizzarli e offrire un riconoscimento della loro capacità. Si è creato un nuovo rapporto tra la qualità della vita e il lavoro: attraverso il lavoro i giovani costruiscono il proprio modo di essere quindi se non sono soddisfatti vanno via».
Lavorare il minimo: quiet quitting
C’è anche un altro fenomeno legato al mondo del lavoro che sta emergendo con prepotenza: il quiet quitting che tradotto suona come “licenziarsi in silenzio”. Fa riferimento ad una tendenza , confermata anche’essa da alcuni sondaggi, a ridefinire il proprio approccio al lavoro in termini meno maniacali. È sostanzialmente, il rifiuto di mettere il lavoro al centro della propria vita per concentrare il proprio tempo e le proprie forze ad altre attività, legate ad esempio ad una passione.
Secondo il giornale inglese The Guardian, diversi esperti tendono ad associare questo fenomeno a un calo significativo delle sensazioni di gratificazione e soddisfazione sul lavoro, e in parte alle conseguenze a medio e lungo termine della pandemia. «Dalla pandemia in poi il rapporto delle persone con il lavoro è stato studiato in molti modi, e la letteratura sembrerebbe sostenere in generale che in tutte le professioni quel rapporto sia cambiato», ha detto al Guardian la docente della University of Nottingham Maria Kordowicz, che si occupa di comportamento organizzativo nelle imprese.
Lavorare meno e meglio
Insomma, i postumi del Covid sono anche questi. Un modo diverso di vedere e affrontare la vita dove la parte lavoro è sicuramente la fetta più grande e incisiva. Ma dove porterà tutto questo? Credo che la risposta la avremo solo tra qualche anno, vedendo i reali frutti di questi comportamenti.
Quanto vi rispecchiate in questa tendenza? Avete mai pensato di “mollare tutto”?
Lo ammetto io ci ho pensato spesso ma poi la vita, che non è mai come noi la programmiamo (fortunatamente, aggiungo), mi ha cambiato i piani facendomi trasferire all’estero, cosa che non pensavo possibile. Questo forte cambiamento mi ha fatto vedere le cose in maniera diversa e dopo ho deciso di dare sfogo a tutte quelle idee, passioni, che fino a quel momento avevo tenuto…basse.
Insomma, a volte serve un cambiamento improvviso per darci la spinta a fare quello che ci piace.
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