L’ottimismo mascherato: la mia fase 2
Non sono un’ottimista, questo è scritto nella mia carta d’identità sotto la voce “segni particolari”. Io il pessimismo ce l’ho proprio tatuato nell’anima. Anzi no, devo correggermi: trattasi di realismo. Vedo le cose come stanno e sì, magari spesso stanno messe male. Quella storia del bicchiere mezzo pieno mi riguarda solo se si parla di vino. In quel caso posso assicurare che il mio lo è sempre, faccio in modo di riempirlo il più possibile e così la vita sorride di sicuro. Ma lasciando stare il tema enoico a me caro, dicevo dell’ottimismo. E’ successo che, in questa fase due della fase due, io abbia visto il lato positivo di una situazione disagevole. Mi auguro sia una défaillance, che passi presto. Perché io al mio realismo pessimista sono affezionata, stiamo insieme da trent’anni, non è che ora basta una pandemia a cancellare via tutto, eh, non scherziamo. Comunque a farlo vacillare lei, la mascherina. Le ho resistito a lungo, almeno fintantoché ho potuto ovvero fino al momento in cui se non l’avessi indossata sarei stata passibile di sanzione. Ma poi ho ceduto, mi ha sedotto.
Dunque, ho iniziato con quella con il doppio laccio da legare dietro, sotto i capelli. Ora, dipende dai capelli. Se hai la fortuna di poter decidere tu per loro, se loro obbediscono ai denti del tuo pettine, se hanno un orientamento che TU hai scelto, sì, allaccerai la mascherina con scioltezza. Ma se la tua chioma a diciotto anni ti ha annunciato la sua indipendenza con un: “Senti bella, lo scalpo è mio e decido io” e da allora il tuo aspetto ricorda quello di una Gorgone, allora allacciarsi la mascherina è un’impresa titanica: quindici minuti di lotta impari da cui non uscirai mai ordinata, ma solo sudata. Perché sotto quel groviglio tricotico ti illudi di aver legato la mascherina e invece hai solo creato dei dreads. Insomma la prima volta è stata un fallimento, come spesso accade.
Poi sono passata alla mascherina fatta in casa, mandata dai miei col pacco daggiù. Dotata di elastici, quindi un problema -apparentemente- risolto. Ma ne celava un altro che, infido, si è palesato solo dopo averla indossata. Il tessuto. Scampolo di una vecchia tenda datata anni ’60 probabilmente. Seta? No, juta. Al contatto con la pelle del viso mi ha subito portato indietro nel tempo. Esattamente a quando da piccola, dopo la doccia, mia madre mi faceva indossare la maglia intima di lana. Un tipo di lana che credo sia andata fuori commercio perché qualche bambino più coraggioso e intraprendente di me avrà sicuramente chiamato il telefono azzurro. Una pratica di una violenza inaudita. Pungeva la pelle in un modo così insopportabile che pure un fachiro si sarebbe ribellato. Eppure, siccome al pessimismo aggiungo il masochismo nella mia C.I., con questa mascherina homemade ci sono uscita. E così ho potuto scoprirne un altro piccolo difetto: gli elastici. Troppo stretti dietro le orecchie, tiravano tantissimo al punto che da Medusa ero diventata Dumbo. E capirete che così in giro per Milano non si può andare. Bocciata anche la seconda tipologia.
Poi un giorno, per caso ho trovato lei. La semplice mascherina chirurgica monouso. Leggera, elastici morbidi, colore dei miei occhi. Questo azzurro mi ha convinto, mi dona. Ho trovato l’accessorio giusto per me. Aderisce perfettamente al viso, resta ferma perfino quando respiro. Indossarla mi ha indotto a curare di più il trucco: sto usando palette di ombretti che non sapevo nemmeno di possedere. Mascara effet faux cils che costa un occhio della testa e via di sguardi penetranti in metro e in giro per la città. Siamo tutti lì a scrutarci e a sedurci, o almeno così sembra (a me). Ecco il lato positivo: è tutto così intrigante. Chissà cosa c’è sotto quella mascherina…
Baffi, ragazzi. Con quello che spendo per il mascara, la ceretta può aspettare.