La tana di Irene
Occhi azzurri. Pelle chiarissima. Estro e rigore. Un volto costellato da lentiggini. La matematica e l’arte. Tra il disegno e la recitazione. Tra Architettura e Cinema. Arrivano i Prof, Zeta e Notti magiche. Musa di Paolo Virzì e Attrice dell’anno. La Tana e Fabrique du Cinéma. Camilla, Eugenia Malaspina, Gaia e Lia. Diciotto giorni per girare un film. Ventitrè anni e tanti interrogativi sul futuro. Spontanea e naturale. Persone e personaggi, nel cuore e sulla pelle.
Il cinema italiano ha festeggiato lo scorso 22 dicembre i suoi talenti più luminosi al Teatro Sala Umberto a Roma, con la serata di gala del Fabrique du Cinéma Awards 2021. Il premio istituito dalla rivista omonima che da dieci anni fa da talent scout, scoprendo nomi diventati celebri come Gabriele Mainetti, Sydney Sibilia, Matteo Rovere, Miriam Leone, Alessandro Borghi, Matilda De Angelis e molti altri.
Premiata come Miglior attrice dell’anno è stata Irene Vetere per il film La tana di Beatrice Baldacci.
Irene è giovanissima ma con alle spalle già diversi ruoli da protagonista nel cinema. Però lei dice di non essere ancora sicura che da grande farà l’attrice.
È un’opportunità che è capitata nella mia vita, non l’ho cercata. È arrivata quando avevo 15 anni. Ora come ora non risponderei mai che voglio fare l’attrice. È qualcosa che mi sta capitando, che mi piace, sono contentissima, ma ancora non lo so cosa voglio fare realmente.
Ha otto anni Irene, quando l’attore Bernardo Casertano si presenta nella sua scuola elementare, come insegnante di teatro, e le regala il suo primo ruolo. Qualche anno più tardi, Casertano la ricontatta sui social e le chiede di cominciare a fare qualche provino ed entrare nell’agenzia di Luisa Mancinelli.
Ho fatto per svariati anni teatro, però a livello amatoriale, nel senso non in una Accademia. Intorno ai miei 16 anni, appena affacciata in questo mondo, ho iniziato a essere seguita da un coach di recitazione. Privatamente, eravamo lui ed io. Per un motivo principale. Avendo cominciato a recitare mentre ero ancora al liceo, ho dato precedenza allo studio. Non avevo tutto il tempo a disposizione, più di qualche ora a settimana non potevo dedicarla a ciò che era extrascolastico. E poi comunque non ero per nulla convinta che il teatro o il cinema fossero la strada della mia vita. Ho preferito lasciarmi più porte aperte. E infatti dopo il liceo, mi sono iscritta alla facoltà di Architettura.
Negli anni, a dispetto della sua giovane età, è stata scelta da registi importanti e ottenuto attestati e apprezzamenti. E a dicembre scorso, al Fabrique du Cinéma, è stata consacrata come Miglior attrice dell’anno.
È stata una grande emozione e non è solo un modo di dire.
Al Fabrique io sono molto legata. Una delle primissime interviste che ho fatto, tre anni fa, era per il Fabrique. La prima copertina per una rivista era appunto per il Fabrique. Vincere questo premio è stato doppiamente bello per tanti motivi. E ha amplificato la suggestione.
E’ stata una serata strana comunque. Io ero già stata candidata ai premi del Fabrique e non avevo vinto. All’epoca girava la voce che ai vincitori venisse detto anticipatamente della vittoria. Dunque quest’anno, non ricevendo nessuna comunicazione, sono andata serenamente all’evento, sicura di non aver vinto.
In più, per tutta la serata, mia madre, che mi accompagna sempre, ha continuato a mettere le mani avanti, per evitarmi una delusione, e a ripetermi di non rimanerci male perché, secondo lei, non avevo vinto.
Arrivati al momento in cui hanno iniziato a parlare della categoria di Miglior attrice, chi stava facendo le riprese aveva l’obiettivo puntato su di me. E non capivo il motivo perché io ero convinta e sicura che i vincitori venissero avvertiti.
Quando hanno detto il mio nome ovviamente la reazione è stata inaspettata e l’emozione fortissima.
Irene Vetere premiata come Miglior Attrice dell’anno
Nel bel mezzo degli studi universitari e della pandemia, ad Irene arriva una chiamata. Tecnicamente dalla regista e sceneggiatrice di quell’intensa opera che è La Tana. Metafisicamente da una parte di lei, che Irene ancora non conosceva.
La Tana è una sorta di miracolo. Un film realizzato con un micro budget di 150mila euro, stanziato dal Festival di Venezia, perché è uno dei film vincitori della Biennale College.
Biennale College è un progetto dedicato alla formazione dei giovani, nei settori artistici e nelle attività proprie della struttura organizzativa della Biennale. Mira a promuovere i talenti offrendo loro di operare a contatto con Maestri, per la messa a punto di “creazioni” che diventeranno parte dei programmi dei Settori artistici. Un ponte ben attrezzato che offre ai giovani, che vogliano cimentarsi in una delle arti, di farlo nelle condizioni migliori che un’istituzione internazionale possa offrire.
Il merito del miracolo va a Beatrice Baldacci, la regista. Lei mi ha contattata e mandato la sceneggiatura. Io non ho fatto alcun provino, perché lei voleva me. Ero io invece ad essere un po’ spaventata, perché in quel periodo mi si sovrapponevano esami e consegne all’Università di Architettura.
Tra i miei dubbi e il nostro incontro, Beatrice mi dice: guarda se non ci sei tu, io non giro questo film.
Tra perplessità e curiosità, Irene si avvicina al mondo ideato e raffigurato da Beatrice.
Mi arriva la sceneggiatura e io me ne innamoro.
Mi è bastata una lettura per comprendere l’esigenza di raccontare che aveva Beatrice. Ogni scena, frase, situazione, dialogo sta lì per un motivo. Deve stare lì, in quella precisa posizione. Dietro ogni parola c’è il messaggio che Beatrice vuole comunicare. E questa secondo me è la capacità fondamentale di fare cinema, ossia avere il bisogno di trasmettere qualcosa.
Ovviamente, dopo aver letto la sceneggiatura ho deciso di fare il film, anche a costo di non laurearmi più!
La Tana, raccontata da Irene Vetere
Periodo di zona rossa, pochi soldi, pochi giorni per girare. Praticamente impossibile. Eppure il prodigio si realizza.
Non potevamo permetterci nessuno sbaglio, nessun errore sul set. Quindi abbiamo fatto una quantità smisurata di prove. Ci ritrovavamo a casa di Beatrice, Lorenzo Aloi e io. E provavamo, senza sosta.
Siamo arrivati sul set in una atmosfera molto strana per il cinema. In realtà è con il teatro che sali sul palco e non puoi sbagliare, qui si era ribaltata la situazione. Sapevamo che ogni errore l’avremmo pagato caro, ogni minuto era oro.
Un film faticoso da girare, con ritmi serrati e senza poter sbagliare, ma allo stesso tempo vestito di un fascino d’altri tempi.
L’alchimia del set, malgrado tutto, si è ricreata. E infatti, molte scene che non si erano risolte provando, nelle giornate a casa di Beatrice, quelle che non erano arrivate al punto, con il ciak si sono sviluppate nel modo giusto.
È successo un qualcosa di impensabile, che ha permesso in 18 giorni di fare un film e di immergerci totalmente nella sua realtà.
Irene ha prestato volto e anima alla protagonista ambigua e inafferrabile del film di Beatrice Baldacci, Lia.
Una ventenne priva di speranza, impegnata nel prendersi cura di una madre con una malattia neurodegenerativa.
Una ragazza misteriosa e silenziosa Lia, che all’inizio fatica a rapportarsi alla vitalità di Giulio, coinvolgendolo però in piccole sfide sempre più pericolose. Una chiusura alla gioia legata alla decisione di assistere la madre da sola. I protagonisti condividono, in forme diverse, una grande solitudine. Si trovano in relazione con i limiti del corpo. Da una parte la malattia e dall’altra la giovinezza.
Una tematica delicata, un raccontare particolare e uno scoprire se stessi.
Con Lia è stata una compenetrazione. I confini tra lei e me si sono sfumati sempre più.
Sono stata sul set ogni giorno, sempre presente, totalmente assorbita dalla storia che stavamo raccontando. E’ stato assolutamente fuori dagli schemi, rispetto a qualsiasi altro lavoro che abbia mai fatto.
I primi giorni di prove, Beatrice aveva chiesto a Lorenzo e me di trovare un punto in comune e uno differente con i nostri rispettivi personaggi. E io subito avevo risposto che la forza e la particolarità di Lia mi piacevano molto ma che la sentivo lontana da me, anzi che proprio quella distanza mi incuriosiva e stimolava nel cercare il modo di avvicinarmi a lei.
La sentivo quasi una sfida. Beatrice però, già nell’affidarmi quella ragazza, aveva intuito altro.
E in effetti, più entravo in contatto con Lia, più mi accorgevo di una matrice simile tra noi due. Poi è vero che le espressioni esteriori sono diverse. Lia è così decisa ed estrema, in alcune cose. Ha modi di fare che non sono miei. Però con il tempo mi sono resa conto che all’inizio non avevo capito niente. E che davvero potevo specchiarmi in lei.
Lia è inaspettata. E’ una parte di me che non avevo idea ci fosse, prima di conoscerla.
Tanto è vera e presente adesso dentro di me che ho deciso di tatuarmela, sul polso. Il mio primo tatuaggio in assoluto. Lia, scritto con il font con il quale si scrivono le sceneggiature. È lì, sempre insieme a me. Sulla parte interna del polso, in un punto dove io posso vederla e ricordarmi tutte le cose che ho scoperto su me stessa.
Ho realizzato in pochi mesi ciò che di solito si compie in anni, in un percorso di terapia con uno specialista. Partire credendo di essere in un modo e alla fine arrivare a conoscerti davvero. Però sai che tutto quel lavoro e quello scavarti dentro, in qualche modo deve restarti, altrimenti sarà stato tempo buttato. Ecco il tatuaggio a me serve a questo.
Una specie di post-it sulla pelle.
Irene. La ascolti e prendi il suo ritmo. Della voce e della vita.
E’ una ragazza che ha l’esigenza di essere sempre produttiva, attiva, con tremila cose da fare. Altrimenti, come mi confessa lei, la assale l’ansia del non fare.
Però ho anche le giornate sul divano. Ho imparato che servono anche quelle.
La sua passione è il disegno, che è anche il motivo per cui ha scelto la facoltà di Architettura. Anche se dopo il liceo, innamorata della matematica, aveva intenzione di prendere Ingegneria biomedica, per progettare protesi. È da una conversazione con suo fratello che è scattato il cambio di rotta.
Lui mi disse una frase che ancora ricordo bene, mi è rimasta impressa: “non prendere una facoltà pensando al lavoro che farai. Devi immaginarti invece ogni giorno, nei tuoi mesi e anni di studio. Non pensare a un obiettivo che forse si avvererà tra dieci anni o forse non si avvererà mai”. E così ho preferito Architettura, che ha sia la parte scientifica che a me piace molto, ma ha anche quella artistica. Ho realizzato che era l’unica facoltà in cui mi sarei divertita facendola. E così è stato. Dovrei laurearmi a luglio. Non so cosa farò dopo ma non tornerei mai indietro.
Il rigore della matematica, l’estro dell’arte, il rifugio nel disegno.
Mi piace dipingere figure umane, ma è un disegnare catartico. Quando mi viene l’idea di solito è per esorcizzare qualcosa. Raramente disegno perché è una cosa carina da raffigurare.
Malgrado la giovane età, Irene è portata a ragionare e riflettere. Forse è merito del taekwondo, praticato per molto tempo.
A 16 anni ha conquistato anche il bronzo ai campionati italiani junior cinture nere Taekwondo.
Da bambina ero un po’ manesca. Avevo sette anni, ero alle elementari, e ho detto a mia madre: iscrivimi a un’arte marziale altrimenti meno alla gente, fammi sfogare da qualche parte.
Ovviamente mamma non se l’è fatto ripetere. Anche se era un po’ difficile immaginare quella ragazzina piccolina, carina, biondina, con gli occhi azzurri e lentiggini mentre picchiava altri bambini.
Mia mamma mi ha portato nella palestra dove mia sorella faceva ginnastica artistica, con l’idea di farmi fare karate. Lì però praticavano solo il Taekwondo, e io, che non lo avevo nemmeno mai sentito nominare, ho iniziato. E me ne sono innamorata.
Come sport si basa sui calci, i pugni non ci sono quasi per niente. È elegante, con molto ragionamento e studio dietro. Non è solo furia, ti insegna la calma. Credo che mi abbia fatto bene, non so dire in che modo, sicuramente non ho menato nessuno, quindi il mio scopo l’ho raggiunto.
Sicura di niente, per quanto riguarda lo sviluppo del suo futuro. Si lascia tutte le strade aperte.
Coraggiosa e pronta ad affrontare qualsiasi cosa possa accadere.
Un volto intenso, come la sua indole. La vita da scoprire, senza porre limiti.
Le sfide con se stessa e il rifugiarsi nel disegno. Una tana nella sua mente, che parla di giardini in fiore e tunnel da scoprire. Irene recita e si analizza, disegna e si scruta dentro l’anima.
L’hanno definita stella e musa. Lei è tutto e l’esatto opposto. E’ sicuramente già un personaggio. Da scoprire e spiegare, decifrare e seguire.
Non sa se farà l’attrice da grande. In realtà già lo è, ma non diteglielo o potrebbe rimanerci male. Ha ancora voglia di sorprendersi e sorprenderci.
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