I bambini della Luna, tra vivere e sopravvivere. L’autismo raccontato da una mamma
La perdita del contatto con la realtà. L’interazione sociale compromessa. L’emotività compressa. La difficoltà ad esprimersi con le parole.
Il dolore di un genitore. Lo smarrimento. La paura del futuro. Il senso di inadeguatezza.
Il momento della consapevolezza che diventa voragine profonda. E poi, la reazione. Per vivere e sopravvivere.
Una mamma e una figlia. Unite da un legame indissolubile. Speciale.
Enza Rita e Sabrina. Il coraggio, l’amore. Storia di vita che colpisce e insegna. Un passato che è presente e sarà futuro.
Mi sono accorta relativamente presto che qualcosa con Sabrina non andava, mi racconta Enza Rita. Avendo già un’altra bambina di 16 mesi il confronto è stato immediato.
Nel primo anno di vita il suo sviluppo è stato molto regolare, sia a livello motorio che neurologico. A livello verbale, invece, era un po’ indietro. Anche se aveva avuto il cosiddetto periodo della lallazione, le prime paroline stentavano ad uscire.
Intorno ai due anni qualcosa è cambiato: Sabrina ha iniziato a “spegnersi”. Al parco giochi si isolava. Non interagiva con nessun coetaneo, anzi non li guardava neanche. Voleva solo stare sull’altalena ed essere spinta. A casa sceglieva sempre gli stessi giochi: impilava decine di cubi con precisione e mano ferma. Faceva lunghe file di animali. Agli occhi comuni potrebbe sembrare “destrezza e abilità”. E un po’ lo era, ma rischiava di diventare una delle cosiddette stereotipie, tipiche dell’Autismo.
Le stereotipie nell’autismo si caratterizzano spesso per il rispetto di routine molto rigide, ecolalia (ripetizioni di parole e frasi) e manipolazione ripetitiva di oggetti (Lewis & Boucher, 1988; Turner, 1999).
I giorni passavano e lei era sempre meno interessata al mondo circostante, non rispondeva agli stimoli, non si girava se la chiamavamo, non aveva più il contatto oculare nemmeno con me. Il campanello d’allarme è stato proprio quello. Un giorno, mentre le cambiavo il pannolino sul fasciatoio, cercavo di attirare la sua attenzione. Ma lei evitava il mio sguardo, voltava gli occhi da tutt’altra parte, non mi seguiva.
Era il primo, riconoscibile segnale di qualcosa che non andava: l’unico di cui avessi sentito parlare legato all’Autismo.
I bambini con autismo tendono a non guardare gli altri negli occhi. Perché lo fanno? Semplice disinteresse o paura del contatto visivo? Secondo uno studio pubblicato sull’American Journal of Psychiatry i bambini autistici rifuggirebbero allo sguardo altrui perché lo percepirebbero poco interessante.
Nonostante mio marito fosse un pediatra, la prima ad accorgersene sono stata io. Ai tempi, lui era molto preso dal lavoro e aveva poco tempo per dedicarsi alla famiglia e alla cura delle figlie. Ricordo che poco prima di sposarci gli avevo chiesto proprio: “come si riconosce l’autismo?”. La prima cosa che mi aveva detto era stata: “i bambini autistici non guardano negli occhi”.
Ecco: avevo già capito tutto. Sabrina, due anni e quattro mesi, era autistica.
Il buio. Le tenebre che fanno paura e ti immobilizzano. Eppure devi andare avanti, reagire.
Nella vita di ciascuno di noi c’è un prima e un dopo. Enza Rita e la sua famiglia stavano per imboccare un nuovo sentiero. Equipaggiati solo di amore reciproco.
La diagnosi definitiva è arrivata dopo un’osservazione globale presso un centro di Tirrenia, lo Stella Maris, dove Sabrina è stata “studiata” per un periodo da un team di psicologi, psicomotricisti, logopedisti, neuropsichiatri infantili.
Disturbo pervasivo dello sviluppo di tipo autistico non altrimenti specificato.
Ogni genitore desidera che il proprio figlio sia sano e cresca in buona salute. Come si fa ad accettare una simile “condanna a vita”?
Cosa farò? Che devo fare? Ce la farò?
In quel momento vorresti morire, piuttosto che vedere soffrire un figlio. Guardarlo disperarsi senza avere gli strumenti per aiutarlo se non il tuo infinito amore.
Ho provato disperazione e frustrazione, mi confida Enza Rita. Ho pianto. Mi sono sentita crollare il mondo addosso. Non vedevo soluzioni. Ma allo stesso tempo non potevo permettermi il lusso di disperarmi. Non ne avevo neanche la forza. Sabrina assorbiva e prosciugava le mie energie.
A volte si buttava per terra, si irrigidiva e urlava. E io dovevo sdraiarmi su di lei per evitare che si facesse del male, trattenendole le mani, e con le mie gambe a tener ferme le sue.
Non potevo lasciarla con nessuno. Lei comunicava in un modo che solo io ero in grado di comprendere. Mi ha chiamato “mamma” la prima volta a 4 anni compiuti, poi ha iniziato ad articolare le prime parole. “Antino”, per esempio, era un piccolissimo Elefantino viola che teneva sempre stretto in mano. Se lo perdeva entrava in crisi. Ricordo che ne avevamo preso uno di riserva. Ma lei si accorgeva che non era l’originale e finché non lo trovavamo non si calmava.
Solo i cartoni animati in tv la distraevano. Tante parole e frasi le ha imparate da lì.
Stava giorno e notte con me. 24 ore su 24. Se piangeva, e lo faceva spesso e senza alcun apparente motivo, si calmava solo con me. Sabrina aveva dimostrato da subito un attaccamento morboso a me. E al mio seno. Era una bambina molto agitata e trovava conforto solo tra le mie braccia. Specie se le sussurravo all’orecchio la musica della canzoncina di Dumbo: Mrs Jumbo che culla suo figlio, deriso perché diverso, con quelle orecchie enormi. Sabrina adorava quel personaggio. Forse, inconsciamente, ci si ritrovava…Dumbo non parla, unico film della Disney in cui “un protagonista” non dice niente…
L’amore incondizionato di una madre
Mi chiedevo: perché? Perché a me?
Oggi invece mi chiedo: perché a lei? Che vorrebbe solo una vita normale, un ragazzo, un fidanzato, una famiglia, dei figli. Perché a lei? Che a quest’ora sarebbe all’università, a fare le sue esperienze, a cercare il suo posto nel mondo…
Una mamma scenderebbe a patti con il diavolo, prenderebbe su di sé tutto il male pur di non vedere soffrire un figlio.
E forse per questo, dopo lo smarrimento iniziale, ho cercato di reagire sin da subito. Io e mio marito lo abbiamo fatto in maniera diversa. Lui si è buttato a capofitto nello studio e nella ricerca. Più si informava, più capiva, più imparava che dall’autismo non si guarisce. La sua disperazione, se possibile, era ancora più profonda della mia. Spesso mi ha confidato: “Curo molti bambini. Perché proprio io che sono un medico non riesco a guarire mia figlia?”.
L’autismo è una condizione. Non è una malattia. E’ un disturbo mentale. E sai che non esiste medicina in grado di curare, che possa guarire.
Questa consapevolezza ti frustra ancora di più. Se hai la febbre o un qualsiasi malanno puoi sempre sperare di guarire o alleviare i sintomi con una pillola, un medicamento. Per l’autismo non esiste cura. Sai, in partenza, che c’è un solo rimedio: la terapia, specie a livello comportamentale.
Io ho fatto esperienza sul campo giorno dopo giorno. Con la pratica, non tanto con la teoria. Mi sono detta che avevo il dovere di cercare di tirarla fuori da quella condizione di isolamento. Non l’ho rinchiusa in casa, nonostante all’epoca il sentire comune era quello di confondere l’autismo (di cui si sapeva ancora poco) con la schizofrenia. Non volevo confinarla e farla bollare come una “malata mentale”. Così cercavo di farla vivere nella maniera più normale e comune possibile: dove portavo sua sorella, portavo anche lei.
Sabrina doveva vivere! Io dovevo essere la sua porta, il suo passaggio, il suo spiraglio per aprirsi al mondo esterno. Quindi mi sono detta: forza e coraggio! Cerco di prendermi cura di lei, provando ad alleviare le sue frustrazioni: non riuscire ad esprimere cosa ha, cosa sente, cosa vuole. Specie quando, da piccola, nemmeno il linguaggio verbale la supportava.
I disturbi dello spettro autistico sono considerati un insieme (spettro) di disturbi, poiché le manifestazioni variano ampiamente in termini di tipologia e gravità.
L’autismo non è solo quello di Sabrina. Ognuno è diverso dall’altro. Esistono forme più gravi, verso le quali non esiste modo di relazionarsi se non da parte di studiosi ed esperti. Ci sono gli Asperger. E i geni (filosofi, pittori, musicisti, artisti). Al di sopra di tutti noi. Unici.
Oggi, mi confida Enza Rita, nonostante tutto, io mi sento fortunata. Sabrina non è gravissima. Comunica verbalmente. Quello che vuole almeno riesce a dirtelo. Ho sempre saputo che era intelligente, e proprio la sua intelligenza l’ha aiutata ad essere oggi quella che è.
L’autismo non è un “dono”. E per molti è una lotta senza fine contro scuole, luoghi di lavoro, bulli. Ma da un certo punto di vista può essere un superpotere.
greta thunberg
Convivere con l’autismo
Essere genitore di un figlio autistico significa annullarti. Stravolgere la tua vita.
In una condizione di normalità sai che il tuo bambino crescerà e che man mano si staccherà da te. Un figlio autistico, invece, è e sarà sempre con te. Dipendente da te. Si crea una sorta di simbiosi. Io non vedo la mia vita senza di lei. E so che lei, senza di me, non vivrebbe. E’ un legame speciale perché è inscindibile. Dove sono io necessariamente c’è lei. Dove vado io viene lei. Ogni mia scelta include lei. Totalizza le mie giornate, la mia vita. Ogni giorno vivo alla ricerca non della mia felicità, ma della sua. Il suo benessere prevale sul mio, sul nostro.
In tanti mi rimproverano che io la vedo e la tratto sempre come una bambina. Anche gli esperti mi hanno consigliato di non definirla più così. Ma non è facile, quando sai che non crescerà, se non fisicamente.
Attualmente, non sono molte le ricerche che approfondiscono la delicata questione riguardante i fratelli e le sorelle di persone con disabilità. In particolare, gli studi riportati in letteratura sulla relazione fraterna in presenza di un bambino con Disturbo dello Spettro Autistico (ASD) sono controversi. Mentre alcuni evidenziano uno sviluppo simile a quelli di fratelli di bambini a sviluppo tipico, altri descrivono difficoltà comportamentali, relazionali ed emotive. La ricerca descrive sia esperienze positive (sviluppo di empatia e senso di responsabilità precoce) che negative (esposizione a comportamenti spaventosi, violenza fisica, minore attenzione dei genitori, sentimenti di colpa, vergogna, isolamento sociale e preoccupazioni per il futuro).
Il rapporto tra Sabrina e sua sorella per fortuna è splendido. Sono quasi coetanee, solo 16 mesi di differenza. Sono cresciute insieme. Fin da piccola, V. è sempre stata attenta e premurosa, come lo è ogni primogenita. Ma all’inizio, ovviamente, non era consapevole del problema. Finché un bel giorno, tornando dalla scuola materna che frequentavano insieme, seppur in classi diverse, piangendo mi ha detto che non voleva sempre dover andare in classe di Sabrina per consolarla ogni volta che piangeva.
Il primo anno di scuola materna di Sabrina è stato difficile per tutti. Non aveva ancora compiuto tre anni, non parlava. Così le maestre stesse ogni qualvolta non riuscivano a gestirla, ricorrevano all’aiuto di V. che, però, altro non era che una bambina a sua volta. E di soli 4 anni.
A quel punto abbiamo deciso di diversificare i loro percorsi educativi. E da allora non sono più state nella stessa scuola. Per tutelare soprattutto la sorella maggiore che, crescendo, ha capito le difficoltà di Sabrina e ha cercato di aiutarla e proteggerla.
E non è stato mai facile. Quante lacrime e ferite per qualche attimo di pace. Ogni volta che parto mi si lacera il cuore, ma ogni volta che la rivedo il mondo sembra un posto migliore. Il suo sorriso vale tutta la mia vita. I suoi abbracci sono l’unico posto in cui riesco a respirare, la sua risata mi dà fiducia che un giorno tutto andrà per il verso giusto. Non sarà mai facile, ma per quanto lontane saremo sempre insieme.
V., sorella di sabrina
Crescendo, V. ha assunto un ruolo sempre più importante nella vita di sua sorella. Ha una grande influenza su di lei. L’ha sempre stimolata. Da piccola mi diceva che da grande avrebbe voluto diventare “la dottoressa per bambini come Sabrina”, una Neuropsichiatra infantile. Ha desistito solo quando ha capito che avrebbe dovuto iscriversi a Medicina e avere a che fare con gli aghi.
Per me, per noi, è stato di grande aiuto poterle lasciare qualche volta da sole. Per andare al cinema, a teatro. Lei ha cercato di essere non solo la sorella maggiore, ma anche una “mammina”. E’ cresciuta in fretta. Questa situazione l’ha resa da sempre più matura dell’età che aveva. Tuttora Sabrina appena ha un problema chiama la sorella, che lascia tutto e tutti pur di risolverglielo. Altrimenti sa che non avrebbe pace, perché un ragazzo autistico sa essere estenuante. E’ concentrato solo su se stesso (autismo deriva dal greco autòs).
V. sa bene che in futuro toccherà a lei occuparsi della sorella. E questo è il mio vero fardello. Sapere che prima o poi io non ci sarò più e le lascerò questo ingrato compito. Sto già sacrificando io (come è giusto e naturale che sia) la mia vita. Non vorrei che dovesse fare altrettanto lei. Eppure sento già che ogni sua scelta è condizionata. A volte mi pento di non aver fatto un altro figlio, ma non si poteva escludere l’eventualità che potesse essere affetto/a a sua volta da autismo. Quindi ho desistito.
Fin quando era piccola la “diversità” di Sabrina non era visibile agli occhi delle amichette di V. Quando poi se ne accorgevano chiedevano: “che malattia ha tua sorella?”. Una domanda a cui è sempre stato complicato rispondere.
Certe “diversità” sono più visibili, immediate (penso alle persone con sindrome di Down). L’autismo no. E quindi le persone a primo impatto non comprendono. Vedevano, e vedono ora, una ragazza alta, ben formata. Se non la guardi in viso non ti accorgi che è “diversa”.
Ricordati che anche le persone con autismo hanno sentimenti. Sii sensibile e tollerante.
Sai quante umiliazioni, continua Enza Rita, ho ricevuto quando da piccola si comportava “male”, magari urtava le persone, le spingeva senza accorgersene, non rispettava la fila…La gente mi guardava giudicandomi per non averla saputa educare. Una volta, persi la pazienza e discussi con una signora che si era lasciata andare alle solite recriminazioni. “Perché voi passate prima? Non siete mica disabili?”.
Poi quando spiego la situazione tutti si scusano. Ma io non voglio commiserazione. Voglio solo che la gente capisca che ci sono diversità non visibili se non guardi approfonditamente. E’ estenuante e umiliante dover affrontare l’ignoranza della gente. Bisognerebbe parlarne a scuola, negli oratori, nelle palestre, dovunque. Per far crescere la consapevolezza. La società non è pronta e forse non lo sarà mai. Non lo è un genitore, figuriamoci un estraneo.
Una persona autistica incontra limiti insormontabili nelle proprie attività ordinarie, banali e quotidiane. La sua condizione non richiede soltanto trattamenti sanitari mirati sulla sua condizione unica, ma e soprattutto uno sforzo teso all’integrazione.
In Italia qualcosa, in questo senso, è cambiato negli anni. Ma non ancora abbastanza. La strada è ancora lunga.
Oggi a Firenze alcuni negozi espongono degli adesivi blu per far capire che alcuni commessi sono stati addestrati per accogliere persone autistiche. E alcuni cinema, nel nostro Paese, hanno delle sale in cui in alcuni giorni e per alcune proiezioni il sonoro e gli effetti luminosi sono attenuati. Perché alcuni autistici hanno la soglia di tolleranza di luci e suoni pari a zero.
A livello mondiale è stata istituita la Giornata della Consapevolezza dell’Autismo, che si celebra il 2 aprile. Quel giorno se ne parla e se ne discute su ogni canale televisivo. Tante città in tutto il mondo illuminano di blu i monumenti, alcune persone indossano un fiocco blu. Poi, come spesso capita, appuntamento all’anno successivo. Ma l’Autismo va ricordato tutti gli altri 364 giorni.
Il ruolo della scuola, nel processo di integrazione del bambino autistico nella società, è fondamentale. E’ apprendimento sì, ma soprattutto inclusione.
E’ il luogo dove vivono esperienze “libere” e se ne hanno la capacità imparano anche un mestiere (a proposito, altro cruccio: Sabrina che farà da grande?). Aver abolito le classi differenziate è stato un progresso non indifferente. Anche se ci sono pro e contro. Sabrina ha frequentato scuole normali, comunali e statali e grazie alla certificazione 104 ha avuto insegnanti di sostegno (grazie al cielo ottimi) ed educatori comunali che le hanno garantito una copertura scolastica quasi totale. Le sono state garantite le giuste terapie (comportamentali) grazie alle quali oggi è la donna che è. Perché con questi ragazzi è necessario costruire un percorso ad hoc, personalizzato, cucito su misura, e trovare la chiave giusta per entrare nel loro mondo.
Viaggiare è stato importante per il suo sviluppo. All’inizio è stato difficile, ma non ci siamo arresi. Avendo anche un’altra figlia abbiamo cercato di fare in modo che la disabilità di Sabrina non condizionasse la vita di tutti noi. Abbiamo avuto la fortuna che da piccola lei non avesse paura: del treno, dell’aereo…E questo ci ha spalancato orizzonti. Perché alcuni bambini autistici, invece, hanno timore di tante cose, sono iperattivi e non tollerano viaggi lunghi.
Ci siamo sempre detti io e mio marito: “se a Sabrina non facciamo girare e scoprire il mondo noi, chi glielo farà fare?” Senza di noi lei non potrebbe visitare nuovi posti. Noi vogliamo evitarle l’isolamento, la pigrizia, la chiusura mentale. Viaggiando allarghiamo i suoi orizzonti anziché confinarli. Ci sono difficoltà obiettive certo: bisogna rispettare le sue esigenze e i suoi ritmi. Ma tutto si supera. Sabrina, accompagnata da me, ha partecipato anche alle tradizionali gite scolastiche, proprio perché volevamo avesse la possibilità di condividere, sotto il mio sguardo vigile, momenti di svago, goliardia con i suoi compagni.
Vivere accanto alla disabilità è una sfida quotidiana. C’è qualcuno che ha costantemente bisogno di te…e ti ritrovi, spesso, ad essere solo. Con le tue sole forze, le tue paure e quella sensazione asfissiante di non essere abbastanza per la persona che ami.
Mi sento sola? Dipende dal momento e dal contesto. Fino alla conclusione della scuola mi sentivo appoggiata nella speranza di costruire un futuro per lei. Condividevo con insegnanti, educatori e terapisti un progetto, e un programma. Con strategie e finalità.
Ho amiche che hanno imparato a conoscere Sabrina. E ad accettarla. Così com’è. Con amore e pazienza hanno cercato di capire le sue esigenze e necessità e a prevenire situazioni che la farebbero irritare o arrabbiare. Ma comunque non sono mai stata tranquilla del tutto ad affidargliela. I nonni sarebbero stati di grande aiuto. Ma non ci sono più. Ci siamo io e suo papà. Ma chi la gestisce sono essenzialmente io. Non posso permettermi di stare male. E so benissimo che se dovesse succedermi qualcosa (ad esempio un semplice ricovero per un intervento) non saprei a chi lasciarla nell’immediato. Le sto insegnando pian piano a diventare autonoma, ma per ora ha bisogno sempre di me.
Il futuro è un punto interrogativo. Un’ombra. Un velo che non fa trasparire molta luce.
Del futuro mi spaventa tutto. Cosa ne sarà di Sabrina? Chi si prenderà cura di lei? La dovremo per forza portare in una struttura? La “sederanno”? Abuseranno di lei? La maltratteranno? Avremo la possibilità in termini economici di mantenerla?
Enza Rita mi parla a cuore aperto delle sue paure:
Se il futuro di un figlio normodotato per ogni genitore è un pensiero, immagina per noi, padri e madri di figli che non saranno mai autonomi o autosufficienti. Anche se devo riconoscere che lo Stato è presente, che le istituzioni garantiscono e provvedono in termini economici, purtroppo queste “soluzioni” non sono e non saranno sufficienti. Sabrina ha l’esenzione totale per la sanità, percepisce un assegno di accompagnamento e dal 18esimo anno di età anche una pensione che le sarà tolta qualora lei trovasse un lavoro. Da genitori responsabili quali siamo (io sono la sua amministratrice di sostegno, nominata dal tribunale), finora abbiamo cercato di non intaccare le sue “risorse”, che potrebbero risultare utili in futuro. Abbiamo sempre pagato le sue rette, la sua riabilitazione. Proprio in virtù di quel “futuro senza di noi”.
Un peso enorme, un’afflizione, una disperazione.
I nostri ragazzi non hanno amici. Sono soli. Finché sono piccoli magari soprattutto a scuola riescono a giocare con i loro pari. Ma man mano che crescono la “forbice” si apre. Non hanno più interessi comuni. Sabrina, ventenne, è ancora in un mondo incantato. Gli animali, le fiabe, i cartoni animati. I giovani della sua stessa età, nel frattempo, hanno già fatto esperienze di tutti i tipi. Lei è molto frustrata per questo motivo. Ne soffre e me lo dice chiaramente:
“non ho amici!”, “anche tu mamma alla mia età non ne avevi?”.
Ai genitori che hanno scoperto di avere un figlio autistico voglio dire di non scoraggiarsi. Di farsi aiutare, individuare la strada da seguire, per se stessi e per il proprio bambino. Gli studiosi conoscono la teoria, noi genitori impariamo sul campo con la pratica. Io mi sono fatta guidare dal mio istinto materno, specie quando Sabrina era piccola. Dandole tutto il mio amore. Annullandomi a volte. Dimenticando anche di mangiare o di dormire. Pur di vedere ogni giorno un piccolo progresso, di sentire una nuova parola, gioire ad un suo sguardo.
Assistere al passare dei giorni senza che nulla cambi, senza che agli occhi di qualcuno quel mondo “speciale” diventi visibile, senza che si aprano brecce in quell’alto muro dell’indifferenza generale. Escogitare ogni giorno attività e passatempi per far apparire meno inconsistente la scansione dei minuti. L’altalena tra vivere e sopravvivere.
A volte Sabrina chiede: “io non sono come voi. Perché io sono autistica?”.
Lei si rende conto di essere “diversa” dagli altri.
Che poi non sappiamo se siamo noi i diversi. Noi che ci facciamo condizionare dalle regole della società, dalle convenzioni sociali. Questi ragazzi sono veri, senza filtri, dicono tutto quello che pensano. Chi è più libero? Noi o loro? Hanno delle abilità particolari, vedono tutto diversamente, sentono tutto più di noi, a tutti i livelli.
I bambini autistici sono definiti non a caso “i bambini della Luna”.
Forse perché la Terra non è il posto migliore per loro.
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Ps: un grazie particolare ad Enza Rita che ha accettato di raccontarmi la sua storia, scavando nel suo dolore, andando a fondo nel pozzo della sua disperazione. Mi ha insegnato tanto. Con il suo sorriso e i suoi occhi buoni che non hanno perso la speranza. Nonostante tutto.