L’ossessione di un sogno
Un sogno che si trasforma in ossessione.
Cinque cerchi di gloria. Il successo sportivo ai massimi livelli. La medaglia del metallo più prezioso.
Carlo Molfetta desiderava l’oro olimpico sin da bambino. Da quando a scuola, in seconda media, faceva gli autografi ai suoi compagni di classe dicendo: “io un giorno vincerò le Olimpiadi”.
Quel sogno, dopo tanti anni, si è realizzato. A colpi di sacrifici, allenamenti e infortuni da superare. Non una linea dritta la sua, ma un percorso ad ostacoli, che non gli ha impedito, però, di raggiungere il risultato a cui ambiva da sempre.
Io non lo vedevo come qualcosa che volessi raggiungere, mi racconta, ma proprio come qualcosa che ero costretto a fare per sentirmi soddisfatto e fiero della mia vita. Appunto era diventata un’ossessione.
Quella di Carlo Molfetta è una delle pagine più belle della storia dello sport azzurro. Nella sua disciplina, il taekwondo, l’attuale team manager azzurro è salito sul podio di tutte le competizioni più importanti: dagli Europei ai Mondiali, fino ai tanto agognati Giochi Olimpici.
Carlo Molfetta ha chiuso la sua carriera a 32 anni dopo aver vinto tutti i principali trofei internazionali del taekwondo: un oro olimpico a Londra 2012, un oro, due argenti e un bronzo ai Mondiali; un oro, un argento e 2 bronzi agli Europei; una Coppa del Mondo e un oro alle Universiadi, a cui vanno aggiunti anche 10 titoli italiani.
Classe 1984, originario di Mesagne (in provincia di Brindisi), Carlo è entrato in palestra all’età di cinque anni. Da allora quella giovane promessa ha fatto tanta strada, senza perdere quell’animo e quello spirito che l’hanno sempre contraddistinto.
Carlo bambino è sempre con me. Sono rimasto quel Carlo che non si fermava mai, che voleva sempre imparare, che era curioso. Solo che, nel tempo, ho acquisito tanta esperienza. Durante la mia crescita ho sempre cercato di mantenere quel mio lato bambino sempre vivo. Perché penso che affrontare la vita con un po’ di spensieratezza faccia bene. A te stesso ma soprattutto a chi ti circonda. Quindi io non ho fatto altro che vivere una vita da Peter Pan, in versione matura.
Una storia sportiva, la sua, costellata di successi e sconfitte, come quella di ogni atleta che si rispetti, ma anche di qualche infortunio di troppo. Uno, in particolare, gli costò la partecipazione ai Giochi di Pechino del 2008.
Nel 2007, all’ennesimo infortunio, ho pensato: “ora smetto”. Mi ero rotto nuovamente il crociato. Era la quarta operazione in due anni. A quel punto mi sembrava di non farcela più. Non avevo la forza di rialzarmi.
E così ero andato dal segretario generale della Federazione dell’epoca per dirgli che avrei smesso. La sua reazione fu determinante. Mi rispose, un po’ da papà e un po’ da dirigente, dicendomi che ero solo io a dover fare la mia scelta, però lui (come rappresentante della federazione) credeva molto in me. Questa risposta mi diede quella tranquillità di cui avevo bisogno in quel momento per rimettermi in carreggiata e riprendere a pieno ritmo. E infatti da lì, dal 2008 al 2012, è stata una serie di successi continui.
La medaglia conquistata a Londra è stata naturalmente l’esperienza più esaltante della sua carriera (qualche compagno di classe, memore di quel ragazzino dai sogni d’oro, sarà sicuramente andato a ricercare il suo autografo).
Di quella Olimpiade Carlo conserva gelosamente due ricordi. Due istantanee che sono rimaste impresse nella sua mente.
La prima: la vittoria in semifinale con il Mali contro Daba Modibo Keita, già campione del mondo 2007 e 2009. Un atleta di 2.03 metri per 105 chili. Una sfida che avrei tranquillamente evitato, se fosse stato possibile. Lui era senza dubbio il mio incubo peggiore.
La seconda: il calcio del 9 pari della finale. Quello che mi ha permesso di gareggiare e poi vincere al golden point round.
The Wolf, l’ossessione di un sogno è il libro (edito da Bertoni editore) che ci svela appunto cosa si nasconde dietro a un successo.
L’idea di questo libro nasce in tempi non sospetti, subito dopo Londra 2012. Però non avevo mai trovato la forza o la volontà di mettermi lì a recuperare tutto il materiale che mi sarebbe servito. Nel 2015, nel corso delle Olimpiadi europee a Baku, commentavo le partite insieme ad Alfredo Alberico. Da subito tra noi si è creato un feeling particolare, di rispetto reciproco. Così alla sua domanda: “ma tu hai mai pensato di scrivere un libro?”, mi è venuto naturale rispondere: “perché non lo scrivi tu?”. E così sono iniziati i nostri incontri periodici in cui buttavamo giù pensieri e spunti. Mi sono fidato ciecamente di lui. Il risultato è quello che leggerete.
Carlo Molfetta lo conosco dal 2013. Un giorno mi presentai al centro sportivo olimpico Giulio Onesti di Roma con le telecamere di Retesole per un’intervista molto speciale. Dopo le consuete domande di rito avrei indossato “i panni del mestiere” e mi sarei messa alla prova nella sua disciplina. Conservo ancora gelosamente il kimono che mi regalò in quell’occasione. Ogni volta che lo guardo mi ricorda di quell’incontro che mi ha dato la possibilità di conoscere l’uomo oltre che l’atleta.
L‘ossessione di un sogno
Ambizioso, caparbio, uno che molla mai. Come lui stesso si definisce.
Dietro al mio successo c’è semplicemente una persona che non si è abbattuta davanti a nessuna difficoltà. Sono andato avanti sempre, oltre ogni infortunio. Contro tutto e tutti. Anche quando gli altri (alcuni maestri compresi) mi davano per spacciato già quattro anni prima di vincere poi le Olimpiadi.
Io sono questo. Uno che crede vivamente che, in qualsiasi ambito, il successo derivi dal lavoro e dal sacrificio che uno fa.
Ragazzo genuino, sempre con il sorriso sulle labbra. Con la battuta pronta. Fuori dal quadrato Carlo è un simpatico umorista. Ma quando si fa sul serio e suona la campanella allora diventa affamato come un lupo.
Il soprannome The Wolf mi è stato affibbiato da ragazzino. All’epoca mettevo il caschetto al contrario e poi quando salivo sul quadrato lo giravo nella direzione giusta e iniziavo a combattere. Con la mia faccia innocente ingannavo tutti, poi arrivavo e menavo come un fabbro. E quindi iniziarono a paragonarmi al protagonista della favola di Cappuccetto Rosso che si traveste da nonnina ma in realtà è il lupo cattivo.
Figlio d’arte (mi sono appassionato a questo sport grazie a mio padre Eupremio), Carlo Molfetta una volta annunciato il suo ritiro dall’attività agonistica ha deciso di dedicarsi ai giovani con la missione di trasferir loro la sua esperienza e la sua passione.
Tutti gli errori che io ho fatto non ho paura di raccontarli, anzi. Credo che proprio quelli siano la base per il successo. Chiaramente ogni atleta deve poter sbagliare per conto proprio e imparare personalmente dai suoi sbagli. Ma sapere come qualcun altro, in questo caso io, ha affrontato una difficoltà, può aiutarlo a crescere più in fretta. Quindi quello che cerco di trasmettere loro è un po’ tutto quello che io ho vissuto. E di cose fortunatamente ne ho vissute un sacco.
Carlo è anche un affettuoso marito. E un papà, attento e premuroso. Il destino di Rachele è in qualche modo segnato: un atleta come lui non può che trasmettere ad una figlia tutto il suo amore per lo sport. Qualsiasi esso sia.
Spero che qualsiasi sport scelga di fare lo faccia in maniera non superficiale. Sarà lei a scegliere. Io posso indirizzarla in una direzione piuttosto che in un’altra. A me piacerebbe facesse tennis. Ma, ripeto, la cosa più importante sarà che lei capisca e apprezzi la vera natura dello sport. Formazione, adattamento al sacrificio. Valori che poi le serviranno anche nel mondo lavorativo, nello studio. In tutto.
Il fisico e la mente. L’ossessione e il sogno. Il sacrificio e la fatica. I successi e le cadute. Campioni si diventa solo così. E il bello è che per Carlo non è mica finita qui. Il prossimo traguardo è già nel mirino: diventare in futuro il presidente del CONI.
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