Marco e Elisa Wong: ri-generazioni a confronto.
Due anime legate da diversi punti in comune: la doppia cultura, cinese e italiana; l’attenzione per la politica e per il sociale; la passione per l’arte, ma soprattutto legati dall’amore di padre e figlia. Sto parlando di Marco ed Elisa Wong.
Lui massimo rappresentante dei cinesi in Italia, ora anche esponente politico per un partito italiano; da sempre abile giornalista e scrittore. In questi giorni presenta sul mercato la sua nuova graphic novel “Mei Lin la campionessa del ping pong”. Lei giovane, già laureata in economia, oggi sul trampolino di lancio nel mondo del cinema con la partecipazione nella serie di Netflix “Zero”, ambientata nella periferia di Milano.
Marco e Elisa Wong non si sono mai fermati d’avanti a nulla e i grandi risultati lo dimostrano.
Ecco Marco e Elisa Wong in una intervista nella quale scoprire l’approccio che hanno rispetto a temi comuni.
Cosa significa essere una seconda generazione, Marco negli anni ’70, mentre Elisa nel terzo millennio?
Marco: Negli anni ’70 l’Italia aveva una percentuale di immigrati molto bassa, per cui c’era poca abitudine e conseguentemente molta curiosità. Molti mi chiedevano per esempio se non fossi un bambino vietnamita adottato da una famiglia italiana, a causa della guerra nel Vietnam. Oppure mi facevano tante domande su Mao e la rivoluzione culturale. Argomenti di cui si sentiva molto parlare, ma di cui c’erano poche testimonianze dirette. In generale c’era più ignoranza sulle tematiche migratorie, ma anche un pregiudizio più positivo rispetto a quello attuale nei confronti delle seconde generazioni. Mancavano quindi punti di riferimento culturali ed esperienze che potessero aiutare nella creazione di una identità propria delle seconde generazioni ed era maggiore il rischio di assimilazione nella cultura dominante.
Elisa: Devo essere onesta, preferisco evitare la dicitura “seconda generazione”, perché è un po’ limitativa e intrinsecamente divisoria. Questo perché si considera il soggetto secondo una specie di classifica, collocandolo in una graduatoria nella quale non potrà davvero arrivare a sentirsi appartenente al territorio in cui è nato o cresciuto. Un po’ come il “paradosso di Zenone” in cui la freccia non arriva mai al bersaglio. Così il discendente di uno straniero non arriverà mai a essere considerato pienamente un cittadino di quel territorio. D’altra parte, in realtà, quando sei una “seconda generazione”, rappresenti figurativamente questo “territorio di mezzo” in cui i confini si dissolvono.
In quale periodo della tua vita è stato più difficile gestire la tua doppia cultura?
Marco: Ogni periodo ha avuto caratteristiche diverse. Probabilmente i più difficili da affrontare sono stati quelli in cui ero più giovane e quindi più fragile. Ero meno corazzato per affrontare le contraddizioni che ci possono essere in una situazione del genere.
Mi ricordo che da bambino molte persone mi chiedevano come fosse la Cina, che per me era un paese quasi sconosciuto, nel quale non ero mai stato. Nonostante ciò sentivo comunque la responsabilità di essere un piccolo ambasciatore del mio paese d’origine.
Compito piuttosto oneroso per un bambino, ma che è stato comunque uno stimolo a interessarmi alla storia e cultura del mio paese di origine.
Elisa: Quando “Adamo ed Eva mangiarono il frutto proibito”, e cioè quando inizia quella presa di coscienza che la diversità viene dipinta e propagandata come un errore, uno sbaglio, se non addirittura un male, creando un circolo vizioso tra auto commiserazione e rigetto del prossimo, in cui non ci si sente mai abbastanza né per gli uni né per gli altri. Imparare a trovare un giusto equilibrio tra due culture non è difficile, ciò che rende il tutto più complicato sono tutti gli stakeholders dei due mondi.
Con quale approccio vivi il tuo ruolo riconosciuto nella società italiana?
Marco: Le mie origini hanno condizionato un po’ tutta la mia vita, dal punto di vista professionale e anche dal punto di vista delle relazioni familiari. Si convive con questo, talvolta può essere un peso faticoso da portare, altre volte un vantaggio perché ti offre la possibilità di conoscere dall’interno diverse culture. Nel mio caso ho cercato di usare il mio background culturale come un vantaggio. Per esempio nella mia carriera professionale ho avuto un incarico manageriale in Cina e quindi opportunità professionali che, se fossi rimasto in Italia, non avrei potuto avere. Anche adesso l’essere un punto di riferimento istituzionale è in qualche modo legato con la comunità cinese in Italia e questo finisce comunque per condizionare il mio ruolo.
Elisa: Con gli anni ho imparato a valorizzare questa diversità che mi ha portato ad espandere il mio percorso portandomi ad avere una maggiore sensibilità su determinate tematiche. Il liceo che ho frequentato (convitto nazionale Vittorio Emanuele II) è stato tra le prime figure istituzionali italiane che ha creduto in questo valore, tant’è che il rettore di quegli anni decise di istituire appositamente un liceo scientifico con lingua cinese.
Ognuno di noi, nel proprio piccolo, può avere un ruolo importante nel cambiamento di una società, aldilà dell’approvazione del singolo o di un determinato gruppo, l’importante è avere a fuoco i proprio valori e la propria integrità.
Purtroppo, ancora oggi la questione dello Ius soli viene usata più come manifesto politico che per trovare una risoluzione definitiva alla questione, quale è il tuo parere?
Marco: Purtroppo la riforma della legge sulla cittadinanza è molto strumentalizzata. Sarebbe dovuta essere una legge che allineava il diritto al mutato contesto sociale italiano. Invece è terreno di scontro nel quale piantare bandiere ideologiche.
Di questo ne fanno le spese 1 milione di ragazzi che si sentono italiani e sono italiani a tutti gli effetti, tranne che nel riconoscimento giuridico del loro status de facto ma non de iure.
Il compito della politica dovrebbe essere quello di esprimere una visione di una società. Invece in questo caso è rimasta ostaggio di paure, per lo più strumentali e portate avanti sulla pelle di quelle seconde generazioni per le quali l’Italia è più una matrigna distante che una madre accogliente. Una società inclusiva, aperta, in cui si verifica una reale integrazione è quella in cui non ci sono figli e figliastri, ma in cui gli ostacoli e le differenze sono rimosse.
Elisa: A tal proposito ci sono tantissime persone, che pur essendo “italiani di fatto” dopo anni ed anni nel territorio italiano non sono stati riconosciuti dalla legge come tali. Questa questione si riversa anche in tantissimi altri ambiti, come ad esempio nei bandi e concorsi pubblici, in cui l’essere italiano è un requisito obbligatorio per far domanda; ignorando e dimenticando le realtà dei titolari di carta permanente di soggiorno/ permesso di soggiorno di lungo termine ecc. C’è ancora tanto da lavorare, però sono fiduciosa nel cambiamento.
Con la pandemia da Coronavirus la Cina è stata al centro dell’attenzione, come hai vissuto la vicenda?
Marco: Questa vicenda mi ha molto coinvolto. Ci sono state varie fasi. Una prima, nel momento dello scoppio della pandemia, che aveva creato diffidenza nei confronti dei cittadini di origine cinese e delle loro attività in Italia. Una seconda fase, più morbida, quando il comportamento della comunità cinese ha contribuito fattivamente al contenimento del virus. La fase attuale è tutta da scrivere, molto influenzata dalla geopolitica internazionale. Per cui la pandemia viene utilizzata nella contrapposizione nei confronti della Cina, causando un sentimento ostile nei confronti dei cittadini asiatici.
Negli USA le statistiche indicano una crescita dei reati di odio razziale nei confronti dei cittadini di origine asiatica. In Italia non abbiamo delle statistiche così precise, ma è palpabile un sentimento diverso rispetto alle fasi precedenti.
Elisa: Appartenere ad una minoranza non è mai facile, se poi ci si aggiunge la combinazione fatale di ignoranza e razzismo, che può essere individuato in diverse forme, dalle micro aggressioni del lessico alla violenza fisica e verbale, la risposta diventa scontata ed immediata: la si vive male. Ci sono stati diversi episodi di aggressioni in Italia come nel resto del mondo contro persone dai lineamenti asiatici, che siano stati conseguenza diretta della pandemia o meno, tutto questo è inaccettabile e barbarico.