L’Unione degli Istriani
Una comunità che non ha più la propria terra, si riunisce intorno ai valori di cui le associazioni si fanno portavoce. Per lasciare ai discendenti un minimo di consapevolezza della storia e non scaraventare la verità in un dimenticatoio. L’Unione degli Istriani-Libera Provincia dell’Istria in Esilio è la principale organizzazione di esuli istriani in Italia. La principale ma non la più antica.
Le vicende dell’associazionismo del mondo degli esuli parte da lontano.
Da quando le diverse migliaia di Istriani, Fiumani e Dalmati, una volta giunti in Italia, si costituirono in numerosi comitati che, a loro volta e in poco tempo, si organizzarono nelle due grandi associazioni: ANVGZ e il Comitato di Liberazione Nazionale dell’Istria.
L’acuirsi delle tensioni internazionali, e il peggioramento delle relazioni con la Jugoslavia, si riversarono anche e con nervosismo all’interno delle due organizzazioni. Creando in questo modo le premesse per la formazione di un nuovo organismo.
Il 5 ottobre 1954, con la firma del Memorandum d’Intesa, la Zona A del Territorio Libero di Trieste passò all’amministrazione italiana mentre la Zona B a quella della Jugoslavia. Ritornava Trieste all’Italia ma i comuni italiani di Capodistria, Isola, Pirano, Umago, Cittanova, Buie, Verteneglio e Grisignana finivano sotto l’amministrazione fiduciaria jugoslava.
In quel contesto, in seno alla comunità degli esuli, si comprese la necessità di fondare un’associazione apartitica e trasversale, che rappresentasse le istanze degli esuli istriani presso il Governo e il Parlamento italiano. Si arrivò dunque a una frattura del sistema associativo.
E nacque, appunto nel 1954, l’Unione degli Istriani. Con lo scopo di tutelare i diritti e le aspettative disattese degli esuli.
Presidente dell’Associazione è il Dott. Massimiliano Lacota.
L’Unione degli Istriani oggi conta 13000 iscritti, di cui gran parte esuli di prima e seconda generazione. Ai quali si sono aggiunti, negli ultimi anni, anche grazie all’istituzione del Giorno del Ricordo, cittadini italiani che non hanno alcun legame storico-familiare con gli istriani.
Le associazioni, sin dalla loro nascita, sono servite a connettere fra loro gli esuli e fare in modo che venisse riconosciuta la storia e la memoria. Con l’istituzione del Giorno del Ricordo il compito delle associazioni si può considerare, tra virgolette, terminato. Nel senso che la storia è stata fissata istituzionalmente. E adesso è iniziata una nuova missione. Quella di porre attenzione. Affinché, attraverso le testimonianze, dirette e cartacee, e con l’aiuto delle pubbliche amministrazioni, emerga la corretta interpretazione dei fatti.
Già i fatti. Quelli che riguardano uomini, donne e bambini. Fuggiti e scacciati dalle loro terre. Prima la Dalmazia e poi la Venezia Giulia.
La Dalmazia aveva già avuto un primo esodo a partire dagli anni ’20. Con la firma del trattato di Rapallo, che segnava il nuovo confine d’Italia, gran parte della Dalmazia non venne assegnata all’Italia, come invece era stato promesso. Accadde così che gli italiani, rimasti sotto territorio slavo, iniziarono a essere perseguitati. I loro locali non più frequentati, le scuole, i giornali e le associazioni chiusi. Dunque a partire dal 1922 iniziò il primo allontanamento degli italiani. Una fuoriuscita durata fino al 1940.
Dopo l’8 settembre del 1943, in varie fasi, iniziò il dramma anche per la Venezia Giulia. Circa 50000 sono gli Istriani che fuggirono in quel primo periodo, in cui ci si trovò con una rivolta partigiana. Successivamente, nel 1945 con la seconda occupazione si verificò un’ulteriore fase dell’esodo. E nel ’47, col trattato di pace, la maggior parte degli esuli lasciò quelle terre. C’è poi un ultimo e significativo esodo, concentrato nella parte nord occidentale dell’Istria, la cosiddetta ex zona B, nel Territorio libero di Trieste. Zona che fino al 1954 era rimasta in bilico. In seguito alla firma del Memorandum di Londra, Italia e Jugoslavia si spartirono il Territorio. La Zona A passò sotto l’amministrazione civile italiana, mentre la Zona B a quella jugoslava.
Una volta giunti in Italia, lo strazio per gli esuli non era affatto terminato. Numeri altissimi di persone arrivarono in una Penisola non preparata ad accoglierli e che molto spesso si dimostrò ostile nei loro riguardi.
La maggiore concentrazione di esuli si è avuta nella Venezia Giulia, vicina per tradizione culturale e linguistica. Ottantamila nella sola Trieste, che per ventidue anni sarà un grande campo profughi con centodieci strutture. Altre diecimila persone si stanziarono a Gorizia e quindicimila a Udine. E poi insediamenti anche nella città metropolitana di Torino, a Roma e a Napoli. Villaggi si costituirono in Sardegna, Aosta e Puglia. Insomma un coordinamento di strutture con oltre centoventi Campi Raccolta Profughi.
Purtroppo però nei CRP gli esuli si trovarono male. L’accoglienza non era programmata, c’era impreparazione e incapacità. Migliaia di persone furono riunite insieme, stipate in una grande stanza e in promiscuità.
Esuli. Abbandonati e umiliati. Partiti bambini piccolissimi oppure già adulti, con una valigia e la responsabilità di una famiglia. Sensazioni differenti con un futuro discordante.
Per chi è nato negli anni ’20, l’istituzione del Giorno del Ricordo è arrivato tardi. Molti erano già morti, altri troppo anziani e incapaci di godere di questo risultato. Per coloro invece che sono andati via da bambini quel 10 febbraio ha rappresentato un obiettivo a lungo inseguito e finalmente raggiunto.
Un traguardo morale arrivato, quello della memoria, che fa da contraltare a tutta una parte economica ancora non saldata.
In base al Trattato di pace di Parigi nel 1947 lo stato italiano, che aveva perso la guerra, doveva un risarcimento economico alla Jugoslavia, come riparazione per i danni di guerra subiti. Così, sui beni degli Italiani, che avevano abbandonato i territori, lo stato jugoslavo attuò la confisca. Giustificando appunto il tutto con il risarcimento di centoventicinquemilioni di dollari, che l’Italia doveva in base al Trattato.
L’Italia firmò nel tempo una serie di accordi e liquidò un indennizzo agli esuli, sulla base di un costo presunto dei beni, molto inferiore rispetto al loro reale valore. Poi, nel 1975 intervenne il trattato di Osimo, nel quale espressamente si parlava di un accordo per risarcire i beni nazionalizzati dalla Jugoslavia nella ex-Zona B del Territorio Libero di Trieste. Tuttavia fu solo nel 1983 che a Roma venne ratificato l’accordo previsto dal Trattato di Osimo. Con l’accordo la Jugoslavia s’impegnava a pagare centodiecimilioni di dollari. Però la repubblica jugoslava si scompose e al momento dello smembramento solo 18 milioni di dollari erano stati versati e distribuiti agli esuli.
Slovenia e Croazia firmarono nel 1992 a Roma un Memorandum in cui si impegnavano ai successivi pagamenti. Senza arrivare a un trattato definitivo. I due Stati si accordarono tra loro, per versare, in percentuale del 62% per la Slovenia e del 38% per la Croazia, la restante parte della somma. La Slovenia depositò circa cinquantasei milioni di dollari presso la filiale lussemburghese della Dresdner Bank, considerando con ciò di aver saldato il debito. Agli esuli o ai loro discendenti non sono ancora stati distribuiti questi fondi provenienti dalla Slovenia. La Croazia non ha ancora versato alcunché, poiché spera di trattare ulteriormente con le autorità italiane.
Nel susseguirsi degli anni, le associazioni di esuli hanno più volte richiesto al governo italiano di rivedere le entità di tutti i precedenti risarcimenti. Fu fatta domanda di indennizzo anche alla Jugoslavia. Purtroppo però senza ancora vedere luce.
Gli esuli di prima generazione intanto muoiono. E con loro si perde la forza e la voglia di lottare, per rientrare in possesso dei di quei beni lasciati nelle terre natie. Case che oggi potrebbero essere libere ad esempio.
Purtroppo quando le generazioni che hanno diritto se ne vanno, chiedere a chi è di terza generazione se vuole indietro una proprietà come una casa, è quasi una domanda retorica. Un ragazzo difficilmente risponderà affermativamente per un bene lontano e fatiscente. Mi viene da credere che forse è proprio questo che si aspettava accadesse.
Gli Istriani quando è stato il momento, hanno votato con i piedi. Dimostrando con i fatti la loro scelta di italianità. Lasciando terra, casa, beni, a volte affetti.
Tutti si sentono Italiani, però in molti di loro alberga anche un senso di delusione e tradimento di diritti non riconosciuti.
E questa delusione è probabilmente l’atto più tremendo dopo l’esodo. Quella sensazione che ferisce, quel dolore di una speranza tradita e che arriva a intossicare e rendere amaro il più fiero sentimento italiano.
Per leggere le interviste ai testimoni diretti (Magazzino 18. Parte I-II-III)
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