Mamba mentality: il basket e la vita secondo Bryant
Il soprannome Black Mamba, Kobe Bryant se l’era dato da sé.
Come un cobra, serpente africano agile, veloce e letale, anche lui puntava dritto all’obiettivo, il canestro, con una precisione dalla lunga distanza fuori dal comune.
Il suo nome è diventato leggenda!
Amato e odiato. Un campione che ha diviso per poi unire.
L’ossessione della vittoria
Un ragazzo nato a Filadelfia, cresciuto con l’ossessione della vittoria. Con la passione per la palla a spicchi ereditata da papà Joe. La fatica e il dolore come compagni fedeli nella ricerca, assidua e costante della fama, di un posto d’onore nell’albo dei più forti di tutti i tempi.
Un sogno cullato e coltivato a suon di allenamenti e di sudore, sforzi e sacrifici. Una ferocia agonistica totalizzante, una dedizione al perfezionismo che solo i grandi campioni hanno scritta nel dna.
Kobe Bryant, per intenderci, era uno che si portava dietro il personal trainer e la guardia del corpo per una pedalata in bicicletta di 40 miglia dopo cena. Uno che si allenava da solo due ore prima della sessione collettiva. Uno che a fine giornata rimaneva in palestra e continuava a tirare, a tirare, e a tirare ancora.
Tutto in canestro
In quel canestro c’era tutto di lui. Il ragazzo, l’uomo, il marito, il padre, l’atleta di classe, il giocatore prorompente. Un mentore per tante matricole, uno che non aveva paura di mostrare i segni delle sue debolezze così come della sua forza. Uno che non ha mai nascosto la sua “ricetta per il successo”: l’etica del sacrificio, secondo la quale riuscire o fallire dipende solo da noi e da quanto siamo disposti a dare o a fare per ottenere un determinato risultato.
Kobe Bryant è stato un simbolo dell’NBA a cavallo del 2000. L’erede riconosciuto di Michael Jordan, campione indiscusso a cui si è avvicinato più di ogni altro.
Il campione e la persona
Luci e ombre, quelle che hanno attraversato la sua vita e la sua carriera. Per molti un bad boy, a volte duro e spietato persino con i suoi compagni. Indomabile.
A pesare, forse più di ogni altra, la macchia dell’accusa di stupro in una notte del 2003 in Colorado. La perfezione che si sgretola, nessuna verità finale, nessuna condanna ufficiale da parte dei tribunali. Una vicenda bollata come misunderstanding.
Il campione e la persona. L’eterno dilemma. Come per Diego Armando Maradona. Un mito in campo, un uomo controverso nella vita privata. Un altro enfant prodige diventato profeta. Simbolo di uno sport, in questo caso la pallacanestro.
Il suo sogno, così come quello di tutti i cestisti probabilmente, era giocare in NBA. Lo era durante quei pomeriggi trascorsi in Italia dove aveva mosso i suoi primi passi sul parquet. Rieti, Reggio Calabria, Pistoia, Reggio Emilia, le città che lo hanno accolto e visto crescere, dal 1984 al 1991, dai 6 ai 13 anni, nell’età in cui il ragazzo si è formato e ha dato identità alle proprie ambizioni. Sette anni dopo, nel 1996, il suo debutto nella National Basketball Association.
Un nome diventato leggenda
La sua tragica scomparsa ha commosso il mondo intero. E’ il 26 gennaio 2020. Un incidente aereo. La vita che si spezza, insieme a quella di altre otto persone, fra cui la figlia Gianna di 13 anni. Una ragazza che, seguendo la sua scia, si allenava a basket sette giorni a settimana, senza mai risparmiarsi.
“Ha lavorato instancabilmente per vent’anni, ha dato tutto. Quello che voleva era passare del tempo con me e con le nostre figlie per recuperare il tempo perduto, voleva essere lì per ogni momento speciale nella vita delle nostre figlie. Ha potuto godersi soltanto tre anni e nove mesi”.
Vanessa Bryant
Da quel giorno tanto è stato scritto e detto. Immagini, parole, testi che hanno raccontato la sua storia. Lo hanno fatto anche i colleghi Matteo Recanatesi e Marco Terrenato con un libro, dal titolo Kobe. Il mito sportivo che ha fatto sognare il mondo, che racconta aneddoti poco conosciuti legati alla vita del campione, ma soprattutto dell’uomo.
Kobe. Il mito sportivo che ha fatto sognare il mondo
Abbiamo pensato di partire dalla famiglia della mamma, seguendo poi il trasferimento in Italia, la sua esperienza da bambino nel nostro paese con il papà Joe e da lì abbiamo proseguito. A Matteo piaceva l’idea di scoprire un personaggio cosi particolare. A me, che da giornalista avevo avuto più esperienza nel mondo del basket, stuzzicava la possibilità di approfondire le sue imprese sportive in una chiave diversa, attraverso il suo rapporto con gli schemi, con allenatori e compagni di squadra. E così, seppur rallentato dal lockdown, il libro è diventato realtà.
Nel libro, mi spiega Marco Terrenato, raccontiamo molto del Kobe privato. Partendo dai legami familiari: con il carismatico burlone papà Joe, con l’apprensiva e determinata mamma Pamela, con le vivaci sorelle. E ripercorrendo le amicizie italiane di Kobe (con alcuni compagni di giochi è sempre rimasto in contatto) e tanti episodi curiosi di quegli anni. Le partite al minibasket (già da fenomeno), ma anche la prima comunione a Pistoia in cui è arrivato tardi per essersi sporcato l’abito da cerimonia giocando a basket. La gita scolastica a Torino (quando era a Reggio Emilia), in cui ha confidato agli amici che avrebbe giocato nell’Nba, suscitando grasse risate. La giornata al Colosseo con l’amica Tamika, partendo da Rieti. Le passeggiate sul lungomare e la prima comitiva a Reggio Calabria.
L’uomo dei record
E poi le angosce dopo ogni trasferimento, i mesi oscuri di Mulhouse, il periodo difficile del rientro negli USA, quando non capiva lo slang dei suoi coetanei, la rinascita favorita da un illuminato professore dell’High School. E la consacrazione a Los Angeles, i tanti trofei, il rapporto burrascoso con Shaquille O’Neal, l’incontro con la moglie Vanessa, con cui avrà un rapporto turbolento eppure solido, l’amore incondizionato per le quattro figlie (‘il mio poker di donne”). In questo viaggio fisico ed emotivo, c’è un unico filo conduttore: la palla a spicchi, che Kobe portava sempre con se negli anni italiani e dalla quale non si è mai separato. Probabilmente neppure adesso…
Kobe Bryant era definito un “giocatore non facile da allenare”, uno che già in adolescenza aveva ben chiaro l’obiettivo della sua vita: diventare il più forte campione di basket di tutti i tempi.
Per Kobe diventare il numero uno era un’ossessione. Aveva come mito Michael Jordan con cui condivideva la stessa passione, a cui voleva dedicare ogni istante della sua giornata. La sua voglia di diventare un leader e di essere considerato il più forte di tutti lo hanno spinto ad allenarsi sempre di più, costringendo i suoi compagni a fare altrettanto per meritarsi la possibilità di giocare al suo fianco. Non sempre accettava la rigidità degli schemi che nella pallacanestro però sono necessari, ma nel caso di Phil Jackson e del suo mitico triangolo offensivo, alla fine anche Kobe dovette abituarsi all’idea, nonostante non sempre fosse facile allenarlo. A volte in campo tendeva ad esagerare, magari nel volersi prendere tutte le responsabilità al tiro, ma la sua forza era anche questa e lo dimostrò fino all’ultimo secondo in cui rimase in campo da giocatore.
Le origini italiane e il sogno americano
Una morte prematura, la sua, che ha commosso tutto il mondo, appassionati sportivi, tifosi, e non.
Ricordo bene quel giorno: ero in zona mista allo stadio Olimpico e si era sparsa la voce che Kobe Bryant era stato coinvolto in un terribile incidente con il suo elicottero. Non c’era ancora la certezza che Kobe e la sua amata figlia Gianna fossero a bordo ma con il passare dei minuti la notizia ci travolse. Nessuno davvero poteva immaginare una fine così drammatica per un campione come lui, sembrava tutto così assurdo. Ma purtroppo era tutto vero!
Kobe Bryant è uno di quei campioni che al di là delle vittorie sul campo passerà alla storia per la sua capacità di far sognare.
L’NBA è da sempre spettacolo puro, ma senza le giocate dei campioni come Kobe Bryant, non avrebbe lo stesso appeal. E quando si ritirò fu come perdere un pezzo di questo show incredibile. Dal nostro punto di vista la sua esperienza italiana, a cominciare dal mini basket, lo rese ancora più speciale. Un campione americano con dentro di sé una forte componente europea. Una miscela unica.
Fuoriclasse, determinato e generoso
Gli anni di Kobe in Italia sono stati i più spensierati della sua vita. Tutti quelli che lo hanno conosciuto ricordano un bambino semplice e generoso, nonostante un padre famoso e un’agiatezza che nei paesini di provincia (dove i Bryant hanno sempre scelto di abitare) in pochi possedevano.
Quando frequentava la prima media, quel ragazzino riccioluto ha convinto papà Joe a pagare il biglietto della corriera a tutti i compaesani per consentire loro di raggiungere il palazzetto di Pistoia e assistere alla partita di basket. Di quel periodo di gioia e di formazione, Kobe ha sempre conservato un ricordo leggero.
‘Le mie figlie hanno tanti privilegi, ma non possono godere della libertà e della naturalezza che ho avuto io da bambino’
Kobe Bryant
In una bolla a forma di palla a spicchi
Kobe è cresciuto in una bolla a forma di palla a spicchi. Da nonno, zio e papà ha ereditato i geni del talento per il basket. L’immensa determinazione che possedeva però è un’eredità materna. Come si legge nel libro, la bellissima mamma Pamela (ex Miss Pennsylvania) era dotata di un carattere forte ed era lei a prendere le decisioni importanti. Il clima disteso in casa Bryant e l’allegria di papà Joe, che in Italia ha trovato quelle soddisfazioni che non era riuscito a raccogliere nell’Nba, hanno consentito senza dubbio al Kobe bambino di concentrarsi a fondo sulla sua grande passione: il basket.
Più tardi conoscerà tensioni inattese, come l’ammutinamento dei genitori al suo matrimonio, che non approvavano, o le minacce di divorzio della moglie Vanessa in seguito all’accusa di stupro mossa da una cameriera contro Kobe. Ma il Black Mamba era già un uomo formato, i risultati in campo evidentemente non ne hanno risentito.
Mamba mentality
Ex leggenda dei Lakers, con addosso la maglia numero 24, Bryant come giocatore ha collezionato una sfilza infinita di record e primati: cinque titoli, diciotto apparizioni all’All Star Game, 33.643 punti realizzati in 1.346 partite. Prima dell’addio alle gare, il 14 aprile del 2016.
Ricordo bene la sua ultima partita contro gli Utah Jazz. Sono quelle serate che speri non finiscano mai. Perché come accaduto con campioni del calibro di Michael Jordan, ma in generale anche in altri sport, quando un mito come Bryant decide di smettere è come se perdessi qualcosa anche tu. Pensi che non potrai più ammirare le sue giocate, le sue imprese, vivere quelle emozioni che solo talenti come lui possono regalarti. E poi quella sera il Black Mamba lasciò ancora il segno con 60 punti a referto. Fu una serata hollywoodiana…
Kobe Bryant lascia al mondo dello sport, e in particolare del basket, un’eredità. Un lascito composto indubbiamente da un invidiabile e invidiato palmares ma soprattutto da un modo personale e unico di affrontare la vita: la ‘Mamba Mentality’!
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