Trent’anni senza Kurt Cobain
Io lo so perché si è ammazzato Kurt Cobain.
Io lo so perché si è puntato un fucile alla testa e ha fatto fuoco. Perché si è iniettato litri di eroina in vena prima di trovare il coraggio di spegnere un dolore, lontano ma accecante come il Sole. So perché lo ha fatto in solitudine, consegnando il suo cadavere al mondo con ben tre giorni di ritardo.
Io lo so perché.
E’ stata la speranza tradita a fiaccarlo e poi finirlo. Oltre all’incapacità di suturare gli squarci che la vita gli aveva vergato sulla pelle. Tutto è rintracciabile nel nome della band che lo ha consegnato alla Storia come il portavoce di un’intera generazione. “Nirvana” che significa liberazione dal dolore, dalla sofferenza e dal mondo esterno “e questo si avvicina al mio concetto di punk” spiega Cobain. Nulla di più lontano da quello che il destino gli riserverà.
Tutto è scritto, nero su bianco, all’interno della lettera che Kurt ha lasciato prima di farla finita. Un inno d’amore. Una confessione, fin troppo lucida, consegnata da chi ha compreso fin troppo bene la potenza dei geni e la solidità di catene generazionali impossibili da spezzare.
Se non guarisci ciò che ti ha ferito, sanguinerai addosso a persone che non ti ha tagliato.
Ditemi se lo stesso concetto non si può rintracciare nelle righe finali della missiva finale di Cobain: ti prego Courtney continua ad andare avanti, per Frances. Perché la sua vita sarà molto più felice senza di me.
Non è stato il dolore, quindi, a uccidere l’iconografia del grunge. Ma il terrore di regalare al mondo una copia di sé: non posso sopportare l’idea che Frances diventi una miserabile, autodistruttiva rocker come me.
La paura e il senso di protezione del padre hanno avuto la meglio sul peggiore degli spleen.
Trent’anni senza Kurt Cobain.
Un tempo che ha di gran lunga superato la sua permanenza tra di noi. Un tempo che chissà come ce lo avrebbe consegnato: se finalmente risolto o ancora alle prese con mellifluità del suo rapporto con il pubblico. E se di Cobain e della sua generazione se ne è parlato, scritto, cantato fino ad averne alla nausea, a me, come al solito egoisticamente, è ai miei coetanei che viene da pensare.
Noi che, come i ragazzi della generazione X, non siamo reduci da guerre mondiali e preoccupazioni reali. Che, però, nemmeno possiamo crogiolarci sull’oppio di un futuro promesso anche se mai mantenuto.
Noi che, a differenza di chi cantava ai concerti Rape Me, soffriamo e non abbiamo nemmeno un rappresentante.
Noi che siamo irrimediabilmente perduti.
Gabriele Ziantoni #DisperatamenteMalinconico
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