Salute mentale e il bonus di Fedez
Una firma a favore del bonus per la “salute mentale”.
Detta così: come dire di no?
Il “bonus psicologo” è un contributo per sostenere le spese relative a sessioni di psicoterapia in favore di persone in stato di ansia, stress e depressione (che siano nella condizione di beneficiare di un percorso psicoterapeutico), per aiutare a ristabilire un corretto rapporto con la salute mentale.
Se non fosse che, a lanciare la petizione, sia un personaggio pubblico, un influencer, che sui social consolida e comunica quotidianamente fama, successo, ricchezza.
Già vi vedo. Che male c’è, starà pensando qualcuno di voi, che ad accendere i riflettori su un tema del genere sia stato il noto rapper/imprenditore milanese Federico Lucia, in arte Fedez?
Urge quindi una doverosa premessa. Non sono una hater del vip in questione, canticchio qualche volta sotto la doccia le sue canzoni, lo seguo su Instagram e, fondamentalmente, non ho niente contro di lui.
Ma il mio spirito critico mi porta a riflettere su una questione su cui sono particolarmente sensibile.
Mi spiego.
L’effetto dei social sulla salute mentale
I social, dati alla mano, pare abbiano effetti devastanti sulla psiche di molte teen-ager. Lo dicono le ricerche, alcune commissionate persino dalla stessa società di Mark Zuckerberg.
Una ragazza su tre in possesso di un account Instagram svilupperebbe, ad esempio, disturbi di percezione del proprio corpo, senso di angoscia e tendenze depressive.
Dagli studi in materia emerge come ci sia una forte correlazione tra l’uso dei social media e la salute mentale. Social e depressione. Naturalmente dipende da come e quanto vengono utilizzati e da chi. Non c’è un rapporto uno a uno.
“Forse le persone che usano i social media sono più inclini alla depressione perché lo stesso tipo di tratti o personalità, caratteristiche o sentimenti che li rendono più adatti all’uso dei social media li rendono anche più inclini a diventare depressi” suggerisce il dott. Roy Perlis, professore di psichiatria al Massachusetts General Hospital e alla Harvard Medical School.
Uno studio condotto dalla Brigham Young University ha rilevato che adolescenti e giovani adulti che usano con più frequenza i social media hanno una probabilità maggiore di sviluppare depressione entro sei mesi, qualsiasi sia la loro personalità. I dati confermano sì che le persone con un indice elevato di nevroticismo hanno un rischio maggiore, ma emerge nettamente che a prescindere dal tipo di personalità un’esposizione costante ai social ha conseguenze negative sulla salute mentale, aumentando il rischio di depressione.
Lo psicologo Jonathan Haidt, insieme ad un gruppo di colleghi, in un altro studio, ha verificato una diminuzione significativa del benessere psichico, con conseguente aumento di ansia, depressione e autolesionismo, specialmente tra ragazze adolescenti, a partire dal 2012. Anno, casualmente (?) in cui la piattaforma Instagram viene acquistata da Mark Zuckerberg, già proprietario di Facebook, con successiva esplosione dell’uso dei social media, gli stessi su cui si ripete all’infinito quanto sia importante prendersi cura della propria salute mentale.
Per non parlare di quella che gli esperti definiscono FOMO Fear of Missing Out, letteralmente “paura di essere tagliati fuori”, una nuova forma di ansia sociale. La paura di perdersi qualcosa, di venire esclusi da eventi o momenti particolari. Una forma di dipendenza tecnologica. Un disagio sociale che, se non soddisfatto, può causare anche crisi di astinenza.
È stato osservato dagli studiosi che la necessità di controllare le vite altrui, attraverso uno smartphone e un social per esempio, spesso deriva da solitudine, insoddisfazione per la propria vita. A soffrirne sono soprattutto i più giovani, che devono ancora farsi le spalle larghe rispetto ad aspettative disilluse o a progetti realizzati solo con pazienza e sacrifici e quasi mai con una bacchetta magica o con un aumento repentino di followers (per restare in tema).
Quando si è insoddisfatti si è portati in maniera naturale a pensare che gli altri siano migliori. Che siano migliori le loro vite. E per questo, osservandole, ci si proietta in un’ideale di vita che non ci appartiene ma che desidereremmo fosse nostro e che viviamo per corrispondenza (virtuale). Un’ideale che oggi, attraverso i social, sono in tanti ad esibire. Chi se lo può permettere realmente e chi no, ed edulcora un bel po’ il suo tenore di vita.
Si cade in un circolo vizioso. I social ti tengono compagnia da un lato, alimentano la tua sofferenza dall’altro. La tua salute mentale va in shock.
Razionalmente tutti, o quasi, riusciamo a capire che la realtà è diversa da quella che le persone scelgono di raccontare sui social network. Le foto vengono costruite, filtrate, mascherate. Viene mostrato il bello. I momenti felici, le esperienze divertenti, quello che ci rende più interessanti agli occhi degli altri. Poi c’è chi ultimamente ha imparato, ahimè, ad esibire come forma di attrazione, anche il dolore. Ma questa è un’altra storia.
La carica degli influencers a favore del bonus “salute mentale”
Tornando a noi, quindi, qualcosa non mi torna e mi invita necessariamente a riflettere.
Che proprio il mondo degli influencers, sulla scia del buon Fedez, abbia iniziato a mobilitarsi, con appelli diffusi in post e storie varie, a favore della sua raccolta firme, stride con la realtà.
Apriamo insieme Instagram. Scorriamo il feed, clicchiamo sui profili. Il quadro che appare davanti ai nostri occhi è quello della messa in scena di vite perfette. Dove tutto è patinato, fotografato, photoshoppato ad arte, opulento, colorato, festoso, nitido. Senza sbavature, salvo quelle create ad arte.
Come può sentirsi un essere umano qualsiasi, giovane per lo più o tendente alla tristezza e all’autocommiserazione, o in crisi per un motivo o per un altro, di fronte a tanta beltà?
Chi vi segue, cari influencers, lo sapete meglio di me, vi ammira, vi emula, ma va in sbattimento confrontando la vostra (quella che mostrate sui social) alla sua miserabile, ops, meglio dire, normalissima (e quindi preziosissima) vita.
In quale altro modo pensate che vi guardi chi non riesce a racimolare due lire per farsi una piccola vacanza mentre quelle vacanze dei sogni voi magari le fate pure pagate da qualcuno per sponsorizzare un hotel o una destinazione piuttosto che un’altra? “Sono solo dei frustati”, ho sentito dire. E no! Non è così semplice o scontato che sia così. Ci sono, e sono tanti, i cosiddetti “leoni da tastiera”, quelli che riversano la loro rabbia sociale e individuale su di voi. C’è un esercito di insoddisfatti e avviliti e delusi e amareggiati della propria vita. Eccome se ci sono. Ma se non ci fossero loro non esistereste voi, perché non avreste nessuno da “influenzare”.
E comunque, “sono solo dei frustati” non dovrebbe nemmeno apparire come pensiero dal momento che si parla di salute mentale e dunque di psiche fragilissima. Eppure ve lo sento dire fin troppo spesso, alla prima critica o al primo commento negativo ricevuto.
Ci sta. È il gioco della vita. Ci sono le star, i vip. E ci sono i fan, il pubblico da casa, le persone normali.
Quello che stride è semplicemente che improvvisamente siano gli influencer, non psicologi o esperti del settore, ad ergersi a paladini di una causa, come quella della salute mentale, che contribuiscono quotidianamente ad alimentare, nolenti o volenti.
Le piattaforme finiscono per generare gli stessi sintomi che pretendono di affrontare.
La depressione è una cosa seria. Molto seria.
Rovina la vita delle persone. È una malattia vera e propria. Che non va confusa con uno sbattimento momentaneo o un periodo no. La depressione non ti fa alzare la mattina dal letto. Ti fa chiudere in te stesso, nel tuo mondo, rifuggendo l’aiuto di chi ti vuol bene. Ti isola. E ti fa sentire un perdente, un fallito. Ti fa vedere la vita scialba e indegna di essere vissuta.
“Parlando costantemente di depressione”, sostiene Paolo Crepet, “finiamo persino per auto-diagnosticarla, generando un’ondata di falsi positivi”.
Complice anche la paura dei postumi pandemici, siamo passati da un blando scetticismo nei confronti della psicologia a una cura quasi ossessiva della nostra mental health. Ossessione che, come effetto negativo, ha generato un’offerta sterminata di professionisti (e sedicenti tali, soprattutto sui social) raggiungibili via app. Innumerevoli approcci terapeutici dell’ultima ora sono proliferati così come soluzioni o concetti mordi e fuggi che sono un calco sbiadito delle teorie complesse da cui originano.
La seduta di uno psicologo non è quella versione edulcorata che va in scena nella serie “The ferragnez”.
Per cui facciamo che siano gli esperti a parlare, a spiegare, a dire.
Perché qualcosa continua a non tornarmi se a lanciare una petizione a sostegno del “bonus psicologo” è quella categoria di persone che suo malgrado contribuisce ad alimentare insicurezze e vuoti d’aria dei loro followers.
È ovvio: se parli di sostegno a favore di un bonus a favore della salute mentale in linea di principio come si fa a venirti contro? È un’iniziativa lodevole in sé e per sé. Poi però ognuno di noi è chiamato a riflettere, a ragionare, ad approfondire. Anche se è un fan, anche se è un follower.
Se oggi sono qui a scrivere di questo argomento non è per millantare una conoscenza su un tema così delicato come quello della salute mentale. Ho lasciato, non a caso, che fossero gli esperti attraverso i loro studi a parlare di depressione, traumi, conseguenze. Mi sono semplicemente informata.
Riapriamo le porte alla competenza, quella vera, frutto di esami, ricerche, studi. Cerchiamo di distinguere la simpatia e la stima virtuale verso un personaggio pubblico dall’appoggio incondizionato a tutto ciò che dice o fa. E soprattutto ricominciamo a guardare alle nostre vite con clemenza. Se ci mettiamo qualche filtro in fondo non ci appariranno poi così male.
#CaparbiamenteSognatrice
Segui DmU Magazine! Sulle nostre pagine social Facebook, Instagram e Telegram.