Dove abbiamo sbagliato

Dove abbiamo sbagliato

La finestra dava proprio sulla piazzetta in cui i bambini passavano i pomeriggi torridi a giocare a pallone o ad “acchiapparella”. A Tommaso passava la voglia solo a pensarci: lui, che nel suo angolo di solitudine chiamato “casa” consumava il suo tempo davanti al ventilatore e alla tv, in modo lento e statico, come una candela che si mangia da sola.

Il pubblico poi cambiava la sera: arrivavano gli adolescenti e quelli che erano maggiorenni da poco, i neo in tutto: neo-patentati, neo-non-più-vergini, neo-aventi-diritto-al-voto. Ecco, a quel pensiero Tommaso storceva sempre il naso: se avesse potuto decidere lui, avrebbe fatto votare solo chi passava un esame in diritto, economia, storia italiana (pre e post repubblica), e cultura generale. Suffragio universale? La più grande stronzata mai creata dopo le patatine fritte.

Che poi, trent’anni all’anagrafe, ma settantatré quelli biologici, che lo costringevano a casa, lo segregavano nelle quattro pareti del monolocale, colmo di pc da riparare con i quali riusciva a tirare su qualche soldo, oltre alla pensione di invalidità.

Le finestre di vetro si nascondevano dietro le persiane accostate, ma, poiché sono aperte, Tommaso riusciva a sentire tutto ciò che quelle belve prede di tempeste ormonali sputavano dalla cavità orale. La tv non riusciva a sopraffarle. Così non poteva fare a meno di ascoltare, di impicciarsi, di immergersi in quelle conversazioni futili e superficiali per lui, ma tanto importanti e coinvolgenti per loro; si lasciava coinvolgere e cullare, mentre la mente lo riportava indietro.

Non era lontano da quell’età in cui anche lui sfrecciava con il motorino e la preoccupazione più grande che aveva era come racimolare il coraggio per invitare Francesca della 5C al ballo di fine anno. E poi a Ostia, sulla Vespa, cavalcando il lungomare. E poi chissà, continuare quella favolosa routine per tutta l’estate.

Non erano lontani quegli inverni in cui passava a sognare l’estate, la fine della scuola, le uscite con gli amici, l’attenzione maniacale nel parcheggiare il motorino accanto al muretto che li ha visti crescere. Senza graffiarlo, sennò suo padre gliel’avrebbe fatta pagare. Quel parcheggio a pochi metri da casa dove si cominciava a respirare tutta la libertà del mondo. Sconfinata.

Le risate, qualche sigaretta,

Qualcuno prendeva addirittura la macchina così si poteva viaggiare in gruppo, anche quando pioveva e faceva troppo freddo per la Vespa.
E poi, un piercing all’ombelico, nascosto ai tuoi, sulla lingua che usavi per pomiciare, leccare, baciare. Sul sopracciglio sempre ben delineato.

Che poi, se Tommaso ci pensava bene, quei candidi baci erano ancora avvolti da un pudore fanciullesco prima di cadere nell’esibizionismo dei social imperanti. I cellulari si utilizzavano per fare gli squilletti, per far capire all’altro che “Ehi, ti sto pensando, ma non posso chiamarti o si svuota la scheda”; per centellinare i messaggi perché ne avevamo solo cento al giorno e il centunesimo costava troppo.
Tommaso si affacciò sbirciando tra le fessure delle imposte. Sì, la vita era bella, anche se eri consapevole che la vicina avrebbe spifferato tutto ai tuoi o che tuo padre sarebbe passato per quel muretto beccandovi in flagrante.

Guardando fuori dalla finestra si rese conto che prima del giorno in cui gli diagnosticarono la SLA, ognuno di loro aveva le proprie piccole ribellioni in una società ancora patriarcale e il cui perno era la famiglia tradizionale che decideva, per filo e per segno cosa avrebbero fatto i più piccoli. Scuola dell’obbligo, università, laurea, lavoro, matrimonio, mutuo, figli.

Il ricordo del passato

Una tristezza lo invase, perché percepì quanto tutta quella libertà aveva perso la sua legittimità, le sue norme, i suoi valori.
“Tranquilli e sereni non ce stamo mai, intorno a noi abbiamo solo macerie, e che cazzo di sciacallo sta bene in mezzo male macerie?”

Un bisogno maniacale di un successo pubblico incontrollabile. Tutto filtrato dallo schermo scheggiato di un telefono.

Ricordava quegli inverni con piacere. E poi il buio. E l’incapacità di capire dove abbiamo sbagliato.

#FastidiosamentePaziente

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Federica Fiordalice

Classe 1994, da sempre il suo sogno nel cassetto è scrivere libri e vivere grazie ad essi. A furia di stare con la testa tra le pagine, è finita su DmU per scrivere e provare a imitare i tanti autori che legge. Al momento ancora non ha scritto alcuna pagina, ma gli scaffali di casa sua continuano ad accumulare libri in attesa di essere letti. Scout per la vita, tra le sue passioni troviamo la corrispondenza cartacea, collezionare cartoline da tutto il mondo e la sua bignè a quattro zampe di nome Wendy. Figlia di Tosca Tassorosso e Durin, capostipite dei Nani tra le file di Tolkien. Dolce, paziente, un po’ stacanovista (a giuste dosi), perfezionista (q.b.). Maneggiare con cura: potrebbe rifilarti freddure di punto in bianco come strategia di difesa.

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