“Potevamo essere noi”: solidarietà alla mamma del neonato morto al Pertini
“Potevamo essere noi”!
Sussurrato, il pensiero ha attraversato la mente di ogni mamma.
Un senso di angoscia, oppressione, condivisione del dolore, comprensione, solidarietà.
Stremata. Dopo tre giorni senza dormire. Senza un’adeguata assistenza. Mentre allattava una neomamma si è addormentata. Il neonato è morto. Soffocato.
Ho i brividi mentre scrivo. Leggo con angoscia l’amaro e doloroso racconto di una donna, piegata dal senso di colpa, dalla disperazione. Ripercorro il drammatico susseguirsi di eventi, precedenti e successivi al decesso della sua creatura appena nata. Mi rimbombano nelle orecchie, come se fossi lì ad ascoltarle, le richieste di aiuto evidentemente cadute nel vuoto.
“Ero ancora molto stanca, piuttosto provata dal parto, dopo 17 ore di travaglio. Per due notti, quella dopo aver partorito e quella successiva, sono riuscita, a fatica, a tenere il bambino vicino a me. Ero stravolta, ho chiesto aiuto alle infermiere, chiedendo loro se potevano prenderlo almeno per un po’. Mi è sempre stato tuttavia risposto che non era possibile portarlo nella nursery. E lo stesso è accaduto nella notte di sabato. Mi sentivo peggio dei giorni precedenti. Ho chiesto ancora di prendere il bimbo, non l’hanno fatto (…) Quella notte sono crollata. Non ce la facevo proprio. Da quel momento non ricordo più nulla”
E’ l’inizio di un incubo. L’infermiera che entra nella stanza e trova la donna addormentata con accanto il figlio ormai privo di vita.
All’improvviso, nel cuore della notte, sono stata svegliata dalle infermiere: il bambino non stava più nel letto con me. Senza dirmi una parola, mi hanno fatto alzare e mi hanno portata in una stanza vicina. Lì mi hanno comunicato che il bambino era morto.
Il tragico episodio è avvenuto all’ospedale Sandro Pertini di Roma. Ma poteva capitare a chiunque.
“Potevamo essere noi”!
Lascio ai giornalisti di cronaca che si stanno occupando della vicenda ricostruzioni, dettagli, testimonianze. Alla Procura il doveroso iter giudiziario per l’individuazione di colpe e responsabilità. E alle influencer le dichiarazioni espresse, a mio giudizio, a volte con troppa superficialità. Tanto per cavalcare l’onda di un tema all’ordine del giorno.
Cuore di mamma
Qui, oggi, io parlo come mamma. Mamma di due bambine, rispettivamente di 5 anni e di 11 mesi. Due travagli, lunghi ed estenuanti. Due parti, naturali e dolorosi. Due esperienze simili, eppure diverse. Con quelle complicazioni, in occasione della seconda gravidanza, risolte tempestivamente solo grazie all’intervento dello staff medico che mi ha letteralmente salvato la vita dopo aver dato alla luce “il mio piccolo grande miracolo”.
Parlo come mamma che ha allattato al seno entrambe le sue bambine. Una per dieci mesi, l’altra per sette mesi.
Scrivo, come un fiume in piena, consapevole di aver incontrato nelle lunghe ore di travaglio, ostetriche e infermiere gentili e professionali e altre più burbere e meno delicate. E conscia della grande fortuna di aver avuto accanto, in entrambe le occasioni, mio marito.
Ricordo benissimo quando, entusiasti dell’idea di non perdere nemmeno un secondo di vita della nostra primogenita, abbiamo optato per il rooming-in (pratica di cui si sta parlando molto nelle ultime settimane in relazione alla vicenda del neonato morto al Pertini).
Ripenso con tenerezza alla prima notte da neomamma. La stanchezza dopo ore e ore di travaglio, il dolore ovunque, in ogni parte del corpo, il senso di incertezza e timore nella prima esperienza di allattamento. La paura di non saper gestire le lacrime della piccola creatura che avevamo accanto.
La seconda notte abbiamo raccolto le poche energie rimaste e abbiamo accudito e cullato la nostra piccolina cercando di alternarci.
La terza notte, sfiniti entrambi, con grande senso di responsabilità abbiamo chiesto aiuto alle ostetriche che ci avevano offerto di prendere con loro la bimba e tenerla per qualche ora nella nursery. Decisione saggia.
Il rooming-in è una forma di assistenza post parto che i reparti di maternità di alcuni ospedali offrono alle neo-mamme, permettendo loro di avere con sé il neonato ventiquattro ore su ventiquattro. Ovviamente il rooming in non è obbligatorio nelle strutture che la propongono, ma semplicemente consigliato perché contribuisce al benessere di mamma e figlio e favorisce un avvio sereno all’allattamento. Anche il Ministero della Salute consiglia questa pratica: “Il contatto tra madre e figlio, che si realizza sia a livello epidermico che visivo immediatamente dopo la nascita, dovrebbe continuare offrendo alla madre la possibilità di tenere sempre il bambino con sé. La pratica del rooming-in dovrebbe quindi sostituire quella di tenere madre e figlio in camere separate e a contatto soltanto durante visite programmate“.
In occasione della nascita della nostra secondogenita eravamo più preparati, sapevamo a cosa andavamo incontro. Abbiamo voluto fortemente optare ancora una volta per il rooming-in, anzi stavolta includendo anche la nostra figlia più grande per un’esperienza immersiva e indimenticabile. Stancante, ma indimenticabile. Ma, ad onor del vero, ogni volta che durante la notte abbiamo chiesto aiuto alle infermiere, abbiamo ricevuto sostegno e comprensione. E anche solo un cambio pannolino in meno o una mezz’ora di sonno in più sono stati determinanti per evitare di esaurire le già esigue energie rimaste dopo un parto che definire complicato è dire poco.
La mia, naturalmente, è una esperienza come tante. Ogni mamma potrebbe raccontare la sua. E in ognuna scopriremmo mille storie diverse e relazioni più o meno complicate con le ostetriche o con il personale sanitario di turno.
Le donne però, a mio parere, non vengono sempre lasciate sole, come ho letto dichiarare da una notissima influencer.
Quello che è evidente, nell’episodio di cronaca romana di cui si parla in questi giorni è che, in questo caso, siamo sicuramente di fronte ad una donna lasciata sola. Sola. Proprio nel momento in cui aveva bisogno di aiuto. Di due mani in più, di un consiglio. Di un sostegno. Fisico e psicologico. Nessuno sembra essersi accorto di nulla, se non quando era ormai troppo tardi.
Perché “potevamo essere noi”…
Una donna, dopo un parto, è una donna fortissima e fragilissima allo stesso tempo. Il solo fatto di essere diventata mamma la fa sentire invincibile ma anche estremamente vulnerabile e impreparata. Non esiste un manuale per fare la mamma. E nemmeno per fare il papà. Esiste solo la vita. E l’esperienza. Che ti insegna, dal momento in cui dai alla luce un figlio, a diventare un genitore.
La violenza ostetrica, altro trend topic di questi giorni, esiste. Dati alla mano. Esistono pratiche e modi di fare aggressivi e non rispettosi della volontà e dei diritti di una mamma.
Ma esistono anche donne e professioniste amorevoli e preparate che possono rivelarsi le più preziose alleate al momento del parto o dell’allattamento.
Allattare, per esempio, fa benissimo al bambino. E, posso dirlo a gran voce, può essere per una donna un’esperienza straordinaria. Non per questo, però, una mamma che decide di non allattare, per qualsiasi motivo, di natura medica o personale, è meno “brava mamma” di un’altra.
La maternità è un’esperienza personale. Vissuta da ogni donna in maniera diversa. A seconda dell’età, delle circostanze, delle esperienze familiari pregresse, del rapporto con il proprio marito, della presenza o meno di un altro figlio. Ogni donna ha il diritto di vivere il parto secondo il proprio modo di essere e di sentire. Che sia in acqua, a casa, in ospedale, con o senza anestesia epidurale.
Forzare la mano, fare “violenza” psicologica nei confronti di una donna che si accinge al parto o che ha appena partorito, può innescare un processo di sfiducia in se stessa e nelle proprie capacità e competenze che può produrre un senso di inadeguatezza, insicurezza e impotenza spesso accompagnati da sconforto, ansia e paura.
Aver subito pratiche invasive, il non essere stata informata, l’essere stata trattata con poco rispetto, può far vivere e ricordare il travaglio e il parto come momenti traumatici.
I diritti della partoriente, in Italia, sono sanciti dall’articolo 32 della Costituzione: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.”
Ascolto, empatia, rispetto, accoglienza. Una donna ha bisogno di tutto questo nel momento più delicato della sua esistenza. E, mi permetto di aggiungere, ha bisogno di tutto questo anche un uomo che sta diventando o è appena diventato padre.
Una neo mamma si sente sola. Un neo papà anche.
“Potevamo essere noi”.
#CaparbiamenteSognatrice
Sull’importanza di un sano e rispettoso rapporto tra ostetrica e futura mamma avevo già scritto qui raccontando la mia personale esperienza
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