La guerra vista da qui
Un rituale quotidiano, che si ripete più volte al giorno. Una necessità incessante di avere notizie. Di sapere cosa sta succedendo. Un po’ sperando ogni volta di ascoltare parole confortanti, un po’ sapendo che non ne troveremo. Neanche oggi.
È più o meno con questo stato d’animo che ogni giorno accendiamo la TV.
Da circa due settimane viviamo in questo nuovo maledetto tempo sospeso. Un’angoscia costante ci accompagna. A volte è più intensa, altre volte riusciamo a far passare anche qualche ora senza pensarci. Questo è il nostro “piccolo” dramma. Il dramma di quelli che vedono la guerra dal divano.
Come la stiamo vivendo noi?
Basta solo la domanda a farci rabbrividire. Che diritto abbiamo noi di esprimere sentimenti di frustrazione, dolore, rabbia, paura? Sotto le bombe ci stanno loro, gli ucraini, un popolo con una tenacia e un orgoglio tali che noi forse non abbiamo mai avuto.
Li amiamo, li accogliamo, facciamo il tifo per loro. Allo stesso tempo, però, iniziano a ronzarci per la testa considerazioni polemiche tipo: “Perché loro sì e i profughi africani no?”. E ci arrabbiamo anche un po’ per questo. Un bel po’. Ma non con gli ucraini, ci mancherebbe.
Ci arrabbiamo col mondo che funziona proprio male. Siamo esausti di questo mondo che non va e non va e non va.
Considerazioni come questa appesantiscono ancora di più l’atmosfera del nostro divano, ma ci aiutano almeno staccare per qualche momento dal costante pensiero a quello che succederà nei prossimi giorni e nelle prossime settimane.
L’importanza di una seria informazione
In questi giorni ci siamo accorti di quanto sia a la differenza di livello tra la vera informazione e i talk show di intrattenimento spacciati per programmi giornalistici.
Ci hanno sempre dato fastidio le discussioni accese durante i salotti televisivi, gli ospiti che si sovrappongono senza rispetto, interessati più ad aver ragione che a fornire uno spunto interessante di riflessione. I conduttori che urlano cadenzando gli interventi ogni volta come se stessero per annunciare un’imminente catastrofe (cosa che peraltro potrebbe anche accadere, ma non c’è bisogno di usare il tono allarmistico anche per lanciare la pubblicità. No?)
Ecco, la cosa scandalosa è che anche in tempo di guerra certe trasmissioni continuino ad esistere e a fare leva sulle ansie delle persone per fare ascolti.
Parlare della guerra è doveroso e necessario in questo momento, ma assistere al solito tifo da stadio tra incravattati, alimentato da conduttori distratti e dispotici è oltre misura fastidioso.
Siamo grati invece ai programmi che trattano la questione con serietà e rispetto, con approfondimenti che ci aiutano a capire, a sperare, a non perderci. Sono i nostri punti di riferimento, dei compagni fedeli di questo viaggio amaro e terrificante.
Dopo due anni di pandemia…
Neanche il tempo di abituarsi a quella sensazione sconosciuta di trovarsi faccia a faccia con un grande evento epocale che ci ritroviamo nuovamente in un contesto simile, ma peggiore.
Sì, incredibile ma vero, stavolta la faccenda è ancora più triste. E non perché siamo stanchi di due anni di pandemia, almeno non solo.
Il motivo è che ora non è l’uomo a dover risolvere un problema, ma è l’uomo a volerlo con tutte le sue forze. Un uomo più di tutti. E questa cosa ci sfianca. Questa guerra ci annienta nello spirito.
Non la vogliamo, non li vogliamo questi giochi di potere che usano le vite umane come carrarmati del Risiko. Vogliamo che si fermino i bombardamenti, vogliamo la pace ora, subito, sempre. Non vogliamo più sentir parlare di missili, di bambini morti, di gas, di russi, di nucleare.
E non ce ne importa quasi più niente dello sconfinamento della Nato, della CIA che starebbe dietro ad Anonymous, del capitalismo che ci sta divorando l’anima e il pianeta. Si deve fermare ora questo ennesimo conflitto e con lui tutti i conflitti del mondo.
La guerra dal divano
Ecco, questo facciamo sul divano davanti alla TV. Cerchiamo di capire come sia possibile, proviamo a farcene una ragione, ci infuriamo leggendo i commenti ai post sui social, guardiamo vecchi documentari sul nazifascismo per comprendere meglio come nascono i totalitarismi. Doniamo quello che possiamo. E poi piangiamo lacrime di impotenza. E ci chiediamo un sacco di cose mentre osserviamo l’essere umano farsi sempre più inerme davanti al caos che ha creato.
Un caos fatto di controsensi e incoerenze.
Perché stiamo cercando di fermare una guerra, ma continuiamo a produrre armi? Perché abbiamo prodotto armi se non volevamo una guerra?
Perché non siamo in grado di trovare la pace con il nostro vicino di casa e preghiamo che la trovino un dittatore megalomane e il popolo da lui violentato?
Ci rendiamo davvero conto di cosa sta succedendo o siamo solo in grado di piangere davanti alle insistenti immagini di sofferenza che guardiamo ininterrottamente da giorni?
Lo riusciamo a capire che la radice del problema sta sempre, ancora una volta, nel non saper convivere con l’altro, non accettare ciò che è diverso da noi, neanche le idee? E soprattutto nella solita estenuante baarbarica e medievale lotta per il potere?
In questo preciso momento ci sono un’altra ventina di guerre nel mondo, altri milioni di profughi, altri pazzi dispotici che un giorno sono stati anche loro dei semplici e innocui bambini che soffrono per le stesse cause.
È asfissiante andare a fondo. Pesante è pensare a tutto questo. È difficile accettare di non aver cambiato la storia, di aver commesso gli stessi errori del passato. Di aver assecondato, finanziato e anche, in certi casi, idolatrato un despota sanguinario.
È più facile chiudere gli occhi, donare aiuti e sperare che le bombe non arrivino mai fino al nostro divano.