Storie dal Pronto Soccorso. Faccia a faccia con gli effetti dei tagli alla Sanità
La cosa forse più difficile da sostenere emotivamente quando si osserva da vicino un Pronto Soccorso è rendersi conto che, nella sfortuna di trovarsi lì, si è comunque più fortunati di tanti altri.
Per esempio di anziani soli, morenti. Di uomini e donne con lo sguardo impaurito che non trovano alcun conforto negli occhi di nessun’altro.
Deboli richieste d’aiuto riecheggiano tra i corridoi zeppi di lettighe parcheggiate come auto allo sfasciacarrozze. I referti si accumulano come infiniti compiti in classe da correggere sulla scrivania del medico di turno. E ogni “voto” è una dimissione, un trasferimento in reparto o un decesso.
Lo sguardo del medico di turno trasmette solo rassegnazione; non si sa se più per l’epilogo della sua professione o per quello dei pazienti. E per paziente non si intende il sostantivo, ma l’aggettivo. Paziente non deriva dal latino né dal greco. Il paziente, quello del pronto soccorso, deriva direttamente dall’inferno.
Si attende a lungo, troppo a lungo, solo per avere un letto in reparto. Giorni infiniti trascorsi in solitudine ad aspettare di guarire o di morire nel mentre, chissà. Su una lettiga, se sei fortunato, o su una sedia se per sfortuna stai leggermente meglio di quelli che stanno malissimo.
Giorni scanditi da viaggi turbolenti nei tubi delle tac e da pasti talmente immangiabili, che ti chiedi come sia possibile. Come fa un brodo, seppure senza sale, a sapere di acqua chiusa in una bottiglia di plastica lasciata al sole? Come?!
Può capitare a tutti di doversi recare urgentemente in ospedale una volta nella vita. Non è qualcosa di raro come trovarsi in trincea durante una battaglia. Chiunque ha avuto almeno un parente in Pronto Soccorso negli ultimi anni. E chiunque sa di cosa stiamo parlando. Il silenzio e l’attesa. La paura e l’incomunicabilità. Ore e giorni senza avere notizie perché non c’è chi te le può dare e perché informare i parenti è solo l’ultima delle tante operazioni quotidiane da dover svolgere sotto organico.
Sì, perchè se da un lato lo sguardo è volto alle terapie intensive che fortunatamente mantengono una percentuale di capienza non preoccupante, dall’altro lato sembra esserci poco interesse per ambiti del sistema sanitario, come il Pronto Soccorso, che sembrano essere al collasso da anni. Forse da sempre. Da talmente tanto tempo che viene da pensare che siano stati proprio progettati così: saturi.
Non è solo colpa del Covid se gli ospedali stanno scoppiando.
La pandemia è stata la goccia che ha fatto traboccare un vaso stracolmo di malagestione, carenze strutturali e di personale. Il Virus è stata la pioggia battente su una catastrofe chiamata tagli alla Sanità.
E alla luce di questo è ancora più controverso tutto: dall’enorme peso gravato sulle spalle dei cittadini come fossero gli unici responsabili della saturazione del sistema sanitario, fino alla drammatica imposizione che impedisce ai figli di salutare i propri genitori sul letto di morte.
In tutto questo scenario raccapricciante si intravede solo una piccola fiammella che ancora illumina il buio. Sono le poche persone di buon cuore che ancora, nonostante tutto, resistono: oss, infermieri, medici, professionisti che svolgono la propria missione con luce sempiterna, come se ogni giorno avessero appena abbassato la mano dopo aver pronunciato il giuramento di Ippocrate.
Squarciano le oscurità dei corridoi con la loro aurea benevola e riportano speranza dove sembrava non essercene più.
Sarebbe un lieto fine perfetto se non fosse per una considerazione che ti viene in mente solo dopo che hai ringraziato tutti i santi per aver trovato quel portantino gentile, quell’infermiere premuroso o quel medico coscienzioso: queste perle rare non dovrebbero essere un’eccezione alla regola e invece lo sono.
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