Caso Berrettini, quando è in gioco l’educazione
Siamo abituati a pensare che il tifo più maleducato sia quello negli stadi di calcio. E invece a Melbourne, gli Australian Open ci hanno dimostrato che, anche in campi senza erba, con una rete e una palla più piccola, si può essere pessimi tifosi. E, quando è in gioco l’educazione, il rischio di perdere qualcosa è per tutti.
Durante l’incontro tra Monfils, tennista francese, e quel bel figliolo che è Matteo Berrettini, qualche supporter francese si è lasciato andare a parole poco lusinghiere nei confronti del campione azzurro.
Il match si conclude con la inaspettata vittoria del tennista italiano e la prevedibile reazione di Matteo che, portandosi il dito all’orecchio, urla “Non sento” in direzione degli irrispettosi spettatori della Rod Laver Arena.
Insomma Berrettini si sa difendere bene dagli attacchi in campo ma è altrettanto impeccabile ad affrontare il tiro mancino che arriva dal pubblico, a volte l’avversario peggiore per un atleta.
In occasioni come questa, sembra facile spiegare il doppio significato del termine “tifo”. Che si parli della malattia infettiva o che ci si riferisca all’entusiastico sostegno sportivo, i sintomi sono gli stessi: offuscamento febbrile della mente, perdita di lucidità.
L’insulto all’avversario prevale sul supporto al proprio idolo. E questa, oltre che uno spreco inutile di energie, mi sembra una dinamica priva di senso e ragionevolezza.
Un comportamento che nega il fair play, dentro e fuori dal campo. Che toglie sacralità allo sport e a certi teatri che lo accolgono. E soprattutto un trattamento che non merita lo sportivo che, pur compiendo a volte imprese titaniche, rimane un ragazzo di 25 anni.
Quella partita Berrettini l’aveva già vinta per educazione e compostezza.
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