E’ stata la mano di Paolo
Partiamo dal presupposto che non sono un critico cinematografico. Amo vedere i bei film, ma spesso mi trovo in contraddizione con il pensiero comune: se un film è dichiarato universalmente bello (da quelli che ci capiscono), non è detto che piaccia anche a me. Aggiungiamo anche che non sono una fan di Paolo Sorrentino: ho visto “La grande bellezza” ma non l’ho amato. Ho preferito di gran lunga “It must be the place”. Tutto questo giro di parole perché ho visto “E’ stata la mano di Dio” l’ultima fatica del regista napoletano, visibile da pochi giorni su Netflix. E il film merita qualche considerazione anche da una profana di critica cinematografica come me.
Non sono riuscita a staccarmi dallo schermo.
E’ incredibile come il film mi abbia attratto, come una calamita. La descrizioni di dinamiche familiari diverse dalle mie ma con affinità che ognuno di noi può trovare nel suo nucleo famigliare. L’adolescenza, stroncata dalla notizia della morte dei genitori, gli stadi del lutto, la visione diversa della vita da come si era immaginata. Il tutto circondato da un corollario di personaggi, con le loro stranezze, le loro vite, le scelte, la loro assoluta normalità. E poi c’è Maradona che lega con un filo invisibile Fabietto ( il protagonista, che interpreta Sorrentino)alle vicende più significative. Perché a Maradona Sorrentino deve la vita.
Cresciuto nel quartiere Vomero di Napoli, Sorrentino ha avuto un infanzia felice con i genitori Concetta e Salvatore. Tifosi del Napoli, quando arriva Maradona il padre gli regala l’abbonamento per andare a vedere il Napoli allo stadio. Ma gli vieta le trasferte, almeno all’inizio. Nei week end che non sono occupati dallo stadio, la famiglia si reca di solito a Roccaraso dove ha una piccola casa di vacanza. In un tragico fine settimana i genitori rimangono vittime di una fuga di monossido di carbonio, sprigionato da una stufa. Per una fortunata circostanza, proprio grazie a Maradona, Sorrentino si salva: il padre gli aveva dato il permesso, per la prima volta, di restare in città e seguire in Napoli in trasferta, per Empoli – Napoli.
Nel 2016 Sorrentino ha raccontato quegli anni: “A me Maradona ha salvato la vita – ha dichiarato al Corriere della Sera – . Da due anni chiedevo a mio padre di poter seguire il Napoli in trasferta, anziché passare i week end in montagna, nella casa di Roccaraso. Ma lui rispondeva sempre che ero troppo piccolo. Quella volta finalmente mi diede il permesso di partire per vedere Empoli – Napoli. Citofonò il portiere. Pensavo mi avvisasse che era arrivato il mio amico a prendermi. Invece mi avvertì che era successo un incidente”.
La vita di Fabietto Schisa cambia inevitabilmente. Da qui il film è tutto un racconto degli stadi del lutto che Fabietto vive. E il film si apre nella parte a mio avviso più bella, perché mostra il lato più intimo di ciò che il regista ha vissuto. Raccontare il dolore non è mai facile. Ma come ricorda Fabietto al suo “maestro”, il regista Antonio Capuano:
“Io voglio fare cinema, perché la realtà non mi piace più. La realtà è scadente”.
La città di Napoli ha qui un ruolo particolarmente rilevante come musa, contenitore di esperienze e madre formatrice. Un luogo impossibile da abbandonare. È stata la mano di Dio è anche un film profondamente spirituale, dove pervade costantemente la sensazione di essere seguiti e osservati da un “altro”. Raccontare il dolore non è facile. Sopratutto quando è il tuo. Ma Sorrentino lo fa in modo impeccabile. A modo suo. Mettendoci anima, cuore e mano.
#OstinatamenteEclettica
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