Reclamo alla réclame: quando la pubblicità sbaglia
Ma quanto ci piace la polemica?!
Siamo in un Paese che sta perfezionando quest’arte. E siccome siamo un Paese di eccellenze, primeggeremo anche in questo. Così, quando andremo in giro per mondo, un giorno, ci diranno: “Italia, pizza, pasta e…polemica”. Del mandolino non si ricorderà più nessuno. E della mafia, ogni tanto, non ci ricordiamo neanche più noi.
Come dite? Sono polemica? Ce l’ho nel sangue, che posso farci!
Comunque per tenerci allenati e vincere questo primato, ce la prendiamo spesso con la pubblicità. Facile bersaglio, terreno scivolosissimo per noi che il politically correct ci piace tanto.
Negli ultimi giorni ad attirarsi un po’ di critiche è stato lo spot televisivo del Parmigiano Reggiano. La ragione dell’accanimento è che il protagonista, Renatino, indefesso casaro dell’azienda, ammette candidamente di lavorare 365 giorni all’anno e di esserne felice.
Qualcuno, mediocre osservatore e provetto minimizzatore, fa spallucce e dice: “embè, è una pubblicità, è finzione”.
Qualcun altro, portatore patologico di sani principi, si incazza e grida allo sfruttamento dei lavoratori!!1!1!
Quella non può essere concepita come un’iperbole, come una metafora (il parmigiano Reggiano “matura”, si forma in un processo produttivo che dura un anno e Renatino sarebbe un po’ la personificazione di questo ciclo). Quella è la celebrazione dello sfruttamento sul lavoro.
Certo, potevano risparmiarsi questo scivolone e tenere un profilo più basso per uno spot tv. Se non fosse che dietro ci sono delle specifiche intenzioni e Paolo Genovese come regista. Perché in effetti questi sono solo 30 secondi di un progetto più grande: uno spezzone di un mediometraggio che vuole raccontare l’azienda e il prodotto con un linguaggio cinematografico.
Una scelta discutibile, quindi, far vedere questo taglio, estrapolato da un contesto più ampio e sicuramente finalizzato a qualcosa di buono.
Insomma una campagna pubblicitaria pensata in grande, giusta per il grande schermo, meno per il piccolo, affatto per il piccolissimo schermo. Quello dello smartphone, quello dei social. Il pubblico digital è guerriero, combatte tutte le battaglie del nostro tempo in prima linea, dietro a un display.
Certo, Genovese forse doveva fare buon uso dell’esperienza del collega Muccino. Il regista aveva raccontato la Calabria in uno spot risultato, alla fine, non troppo lusinghiero per la regione. Un racconto pieno zeppo di stereotipi e di agrumi: bergamotto, clementine, arance. Ma oddio che si veda un limone tra i due attori protagonisti (Bova-Rocio Morales).
Quella pubblicità ha lasciato perplessa anche me, lo ammetto. Il Bova dello spot con i capelli bagnati ha distrutto il ricordo di quello che esce dall’acqua in “Piccolo grande amore”. Questo, Muccino, non ce lo doveva fare. Sarà stato “L’ultimo spot” del regista? Forse un sequel, in questo caso, è meglio non farlo.
È che questi sono tempi difficili. Creare una pubblicità senza urtare varie ed eventuali sensibilità è complicato. Se poi questa deve essere pure geniale, ciao core!
Una volta era tutto più semplice. E infatti ne abbiamo viste di pubblicità di dubbio gusto, allusive, disturbanti, offensive.
Pensiamo allo spot di Eva Qu, supposta effervescente contro la stitichezza. Una ragazza impersona Eva Qu, una sorta di eroina con la missione speciale di salvare il mondo (l’intestino) afflitto dal male (stipsi).
Una pubblicità di dubbio gusto, certamente. Una donna come una supposta. Perché non un uomo? Oggi ce lo chiederemmo. Qualche anno fa l’unico dubbio sarà stato: “farà male?”.
È il 1995, ho otto anni e Charlize Theron è protagonista dello spot del Martini Bianco.
Lei, giovanissima e bellissima, è seduta a un tavolo con un uomo anziano ma (sì, ho scritto “ma”) -presumibilmente- ricco. Poi arriva l’altro, giovane e affascinante, bevono il Martini escludendo l’anziano. Per farla breve: quando il giovane si alza e va via, lei lo segue. Il vestito, già molto corto, si impiglia nella sedia, lei se ne frega e si allontana, il vestito si accorcia sempre di più, scoprendola sempre di più.
Un minuto di pubblicità pieno zeppo di luoghi comuni, di allusioni, di maschilismo. Lì dentro c’è trippa per i leoni di oggi, censori affamati di correttezza. Ma negli anni ‘90 si era tutti più ingenui forse, più distratti sicuramente.
E infatti: chi davvero si era accorto che a indossare quel vestito fosse Charlize?
Comunque pensiamoci bene quando facciamo zapping durante la pubblicità. Potremmo perderci una bella polemica.
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