E’ di rabbia la vera epidemia, altro che Covid…

E’ di rabbia la vera epidemia, altro che Covid…

Il 18 ottobre scorso mi è stato diagnosticato il Covid. L’ho accolto come tutte le cose che, per mia volontà o meno, mi piombano nella vita senza preavviso: rabbia, invidia, frustrazione. Non poteva essere altrimenti per chi, come me, ha consacrato gli ultimi venti mesi della propria esistenza al rispetto delle regole.

Ho rispettato il distanziamento sociale ogni tipo, indicazione, restrizione eppure ho pagato dazio al Sars Cov 19: un conto che mi ha visto costretto a 22 giorni di reclusione in una stanza grande poco meno di venti metri quadri.

La mascherina non l’ho mai tradita. Tra l’altro FFP2, e fin dall’inizio della pandemia quando pensavamo di sconfiggere un virus mortifero coprendoci la bocca con della carta forno. Ho evitato assembramenti di ogni genere: addio alle serate con gli amici, le birre in compagnia, persino le feste di compleanno. Delle cene natalizie nemmeno a parlarne… Mi sono vaccinato, due volte e con gioia: pensando a quanto questo gesto fosse importante per me e per gli altri. Ho rinunciato alla più grande delle mie passioni: i concerti live. Concedendomi qualche eccezione, sempre all’aperto e talmente lontano dal palco da aver bisogno di leggere il labiale del frontman per capire che canzone stesse cantando.

Tutte queste accortezze non sono servite: mi sono contagiato a lavoro.

In una maniera talmente stupida e rocambolesca da farmi venir voglia di ridefinire il concetto stesso di “destino”.Termine, poi, con il quale descriviamo tutto quello che non riusciamo a spiegare. Nel bene e nel male. Ma anche questa è un’altra storia…

L’isolamento, comunque, non è stato così male.

Se tralasciamo l’assenza della mia fidanzata e la difficoltà di dirigere una radio (il mio lavoro) da una camera da letto, questa reclusione forzata mi ha concesso la possibilità di recuperare molte cose: dalle coccole con i gatti a qualche ora di sonno in più.

Ho lavorato. Tanto, tantissimo. Ogni giorno e spesso fino a notte tarda. Invidiando chi stava vivendo la mia stessa esperienza, con la possibilità di sdraiarsi sul divano e curarsi a suon di film e serie tv. Magie dei contratti a tempo indeterminato…

Tutto è filato liscio fino al penultimo tampone, quando ho scoperto di essere lievemente positivo a ben tre settimane dai primi sintomi. Il verdetto non ammetteva repliche: avrei dovuto passare ancora qualche giorno in casa, in attesa della negatività. Di tornare a lavoro nemmeno a parlarne.  

La mia rabbia è esplosa come un gavettone l’ultimo giorno di scuola.

Urla, bestemmie, cazzotti ai muri e agli armadi che mi hanno costretto anche a una fasciatura al polso. Ennesima beffa.

A rendermi furioso non era certamente il Covid che stentava ad abbandonare il mio corpo. Ma questa sensazione, ormai presente da anni, di precarietà, di sfortuna, di ultima ruota del carro.

Steso sul letto, imbronciato e a braccia conserte, masticavo il mio bite anti-bruxismo osservando le immagini delle proteste no vax in Tv. Con il passare dei minuti, il mio lato giudicante ha lasciato il passo a quello riflessivo.

Quelle persone avevano raggiunto piazze e strade per difendere idee lontane anni luce dalle mie. Eppure li capivo: erano arrabbiati come me!

Livore”, lo spettacolo teatrale scritto da Gabriele Linari e interpretato da Daniele Giuliani, al quale ho avuto il piacere di assistere nell’ultimo weekend, tratta proprio di questo: di come il più grande pericolo che sta correndo l’umanità non sia rappresentato da un esserino invisibile capace di farci ammalare. Ma da questa rabbia diffusa, questa collera della quale siamo portatori sani e che ci rende simili a cani idrofobi.

Piccolo sunto, senza spoiler: in un limbo fuori dal tempo e dallo spazio Re Amleto (padre dell’omonimo shakesperiano) e suo fratello Claudio discutono delle proprie vite, metafora delle sorti della Danimarca. Entrambi provano rabbia: verso l’altro, verso se stessi e verso il mondo esterno. Amleto soffre le responsabilità della Corona e rimpiange la vita da Principe. Claudio invidia il fratello e con i suoi discorsi su tetraedi e ricordi materni istiga il nipote a ragionare con la propria testa. Il pensiero è il più contagioso dei virus.

La rabbia è epidemica, Claudio – spiega uno strepitoso Amleto/Giuliani rubandomi l’anima attraverso gli occhi – Bisogna saperla maneggiare con cura. E temo che infetterà anche mio figlio. Voglio che tu smetta di parlargli. O la rabbia si porterà via questo regno”.

Un’istantanea perfetta di quello che stiamo vivendo.

Io non lo so quante responsabilità abbia la mia generazione rispetto a questa pandemia di collera. Non so se l’abbia semplicemente (e sfortunatamente) incontrata o se sia colpevole della sua comparsa. Non conosco soluzioni al problema e temo il momento in cui scoprirò negli occhi di mio figlio questa stessa frustrazione.

L’unica cosa che so è che tutto mi dà rabbia. Anche questo profondo senso di confusione che mi pervade non ricordo più da quanto tempo.  

“Quelli a cui dai la caccia – scriveva Chuck Palaniuhk in Fight Club, uno dei suoi capolavori –  sono le persone da cui dipendi. Noi cuciniamo i tuoi pasti, togliamo la tua immondizia, colleghiamo le tue telefonate, guidiamo le tue ambulanze, ti sorvegliamo mentre stai dormendo. Non fare lo stronzo con noi!”

Ecco, forse è proprio tutto qui.

Ché le promesse mancate abbiamo imparato a tollerarle. Così come il vederci pagati (e ricattati) da gente molto più ignorante di noi che proprio non si spiega come possa ricoprire ruoli apicali. Ci sta bene il lavorare quattordici ore al giorno, ci sta bene persino aver perso memoria del significato di espressioni come “malattia” e “tredicesima”. Abbiamo imparato a sorridere anche dei buongiorno kaffè dei nostri sessantenni, che poi sono gli stessi che ci tengono incastrati in questo limbo senza senso. Rifiutando vaccini e parlando di complotti internazionali mentre sbagliano le coniugazioni dei verbi.

E’ il paradosso a mandarci fuori di testa. L’assurdo. Insieme all’impossibilità, quasi studiata scientificamente, di coltivare i nostri talenti. Le nostre passioni.

Siamo ingranaggi di una catena di montaggio infinita e senza soluzione di tempo. Il guaio è che abbiamo dei sentimenti.  

Cari amici boomer fate attenzione: mi sembra che il vaso sia colmo.

Questa rabbia mi spaventa. La mia e quella di tutta la gente che ho intorno.

Ascoltate Palaniuk!

Date retta a Linari!

“Non fate gli stronzi con noi, altrimenti la rabbia si porterà via questo regno…”

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Gabriele Ziantoni

Giornalista per hobby, polemico per professione, speaker per necessità. Gabriele Ziantoni nasce a Marino, un piccolo paese in provincia di Roma, il 12 dicembre 1983. Solitario, testardo e vagamente intollerante, vive con una penna in mano e un foglio bianco davanti agli occhi fin da quando ne ha memoria. Dopo varie esperienze nel campo del giornalismo, soprattutto sportivo, dal 2011 affronta in maniera ondivaga il rapporto con il suo secondo amore dopo la scrittura: quello con la radio. Direttore Artistico di New Sound Level 90 FM, ha all’attivo tre libri: “Un secondo dopo l’altro” (L’Erudita, 2017), “Nonostante tutto” (L’Erudita, 2019) e “Rudi Voller. Il Tedesco Volante” (Perrone, 2020).

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