Paternità frustrata: chi si preoccupa degli uomini?
Il 27 novembre “Un Secondo dopo l’Altro”, il mio primo libro, compirà quattro anni. Non festeggerà da solo: spegnerà le candeline insieme a Giulia, la bimba protagonista del romanzo. Mia figlia. O meglio: la figlia che avrei voluto. Quella immaginata in tante di quelle notti insonni da doverla necessariamente fissare su carta. Acqua fisiologica iniettata nelle vene di un malato terminale. Quanto pesa la paternità frustrata…
Valeva allora e vale ancora oggi: “Se questo fosse un mondo giusto – scrivevo nella sezione pensata per le dediche – io e Giulia avremmo già dovuto conoscerci”. Ne resto convinto. Come che il mio non sia il migliore dei mondi possibili.
“I demoni hanno fede ma tremano” spiegava Fëdor Dostoevskij in uno dei suoi capolavori. Non credo esistano definizioni migliori per descrivere la scrittura. Come tutte le cose totalizzanti e ingombranti anche Lei ha la forma di un demone. Gli scrittori sono vivi solo quando sanguinano. Quando, in schizzi entropici simili a un Pollock, restituiscono sul foglio la storia che da mesi, forse anni, gli sta avvelenando l’anima. Anche “Un Secondo dopo l’Altro” ha avuto una gestazione simile. E’ nato dalla necessità di trovare una via di sfogo controllata al sentimento che meglio conosco e che più mi ha accompagnato nella vita: la frustrazione.
Era il 2015 e a fatica stavo venendo fuori da due storie, una più brutta dell’altra: uno stalking e una mancata paternità, frutto di una storia ormai finita da tempo che cerca di rimettersi in piedi con una gravidanza. L’errore più antico del mondo.
Non si decide di scrivere: lo si fa e basta. Non si inventa la storia, non si delineano i caratteri dei personaggi, non si congegna un intreccio o pianifica un colpo di scena. Semplicemente, e in maniera improvvisa, la testa si riempie di voci e situazioni che chiedono, anzi pretendono, di essere impresse sul foglio. Pena la follia.
“Un Secondo dopo l’Altro”, esattamente come un figlio, mi ha dato molto più di quanto mi ha tolto. Grazie a questo libro ho conosciuto l’Amore della Vita, Eleonora, e mi sono circondato di persone “comode” e sinceramente interessate a me.
Tra queste c’è Francesca, una sorella acquisita dalla quale mi divide solo il sangue e il DNA. Per il resto è come se fossimo cresciuti insieme: stesse storie, stesse vite, stessi disagi, stressi traumi. L’ho scritto e lo ripeto: la famiglia è quella che ti scegli. Comunque, Francesca è diventata mamma da poco. E con lei, sebbene a distanza a causa degli impegni e della pandemia, ho seguito con curiosità tutti i passi di questa avventura. Avvicinandomi, spesso con paura, a quel processo definito “mammificazione” che Francesca non smette di urlare in faccia a tutti, usando parole sue e di influencers efficaci e preparati.
So resistere a molte cose ma non alla curiosità: ho passato ore a spulciare i profili Social di questi signori, per scoprire che se da un lato c’è grande attenzione per la sfera femminile della gravidanza, dell’uomo, del papà, non c’è quasi mai menzione. Frustrato (di nuovo!) ho provato a cercare in rete articoli specifici sull’argomento. Niente. L’uomo viene nominato solo per evidenziarne limiti e mancanze. Magari per suggerire evoluzioni e migliorarne l’efficacia pratica e psicologica. Mai vengono presi in considerazione i suoi sentimenti. Perché? Dei pensieri dell’uomo, chi si preoccupa?
E non parlatemi di patriarcato: mi girano le palle ogni volta che sento questa parola. Perché nella maggioranza delle circostanze viene utilizzata a sproposito, facendole perdere la sua enorme importanza ed efficacia. E quella contro il patriarcato, soprattutto, è una guerra che le donne non possono combattere da sole. Non se la vogliono vincere in maniera totale. Ma questa è un’altra storia…
Comunque, mentre sullo schermo del’iPhone mi rimbalzavano stories di dialoghi improbabili tra mamme che polemizzavano sul ruolo del papà, incapace di lavare piatti e cambiare pannolini, non ho potuto fare a meno di ripensare alla mia esperienza. E alla totale assenza di empatia che mi veniva riservata: l’attenzione era rivolta tutta alla mia compagna specie quando raccontava che niente, nemmeno questo mese era successo qualcosa ma che con le cure dei medici avremmo trovato una soluzione.
Chiaramente non accadde.
La stesura di un romanzo è quanto di più vicino alla paternità che io abbia vissuto.
Viviamo in un mondo strano: in cui le famiglie ci respingono, in cui lavorare è un lusso, in cui il tempo libero si compra e il coltivare le passioni la più grave delle mancanze. Invecchiamo rimanendo bambini. In una trama degna del miglior Fitzgerald, più ci aumentano le rughe sul viso, più scegliamo di vivere età non nostre. E mentre gli amici si affermano, si sistemano, comprano case firmando contratti a tempo indeterminato, noi ci scambiamo le foto dei nostri animali pensando al prossimo cocktail, la prossima serata, il prossimo hangover.
Ritrovandoci a letto, la sera, dopo quattordici ore di lavoro, ancora vestiti a chiederci: e con un figlio come faremmo? Maledicendo i metri che ci separano dalla cucina e da un pasto frugale che allontana ancora per un po’ il ritorno all’inferno mattutino.
“Non si può amare ciò che non si conosce” diceva ancora Dostoevskij. E invece no, caro Fedor: si può eccome. Io non ho ancora rinunciato a conoscere la mia Giulia. Anche se spesso mi ritrovo a pensare a una ventenne moretta e indomita a cui un sessantenne deve correre dietro con scarsi risultati. Ah, mi ero dimenticato di dirvi che oltre che frustrato e melanconico, sono anche un sognatore. Ma forse non sono l’unico.
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