Oltre il dolore
La guardano, tutti stretti attorno a lei. E lei strizza gli occhi oltre le lacrime per riuscire a guardare loro. Il problema è che pensano di conoscerla, ma non la conoscono fino in fondo. Fino a quel punto lì no. Loro la guardano mescolando dolore e incredulità da maledettoildestino. Lei li guarda riordinando le idee. Oltre il dolore. Forse perché non sa come dirglielo ma lei sa che deve dirglielo.
Qualcosa che va esattamente nella direzione opposta alla loro e che dice io il destino lo sfido.
Il sospiro carico di tensione del Georgia World Congress Center fa pulsare le vene e resta come sospeso. Lo ha innescato il rumore del tendine che strappa: perché la torsione di un piede sull’altro dopo aver piazzato la stoccata del 7-7 lascia pochi dubbi. E l’urlo che squarcia l’aria spazza via anche quei pochi. Tutto questo sul corpo da scricciolo di Diana.
Diana Bianchedi. La dea della caccia e dei boschi è entrata nel corpo esile e nervoso di una ragazza che all’arco e alle frecce ha preferito il fioretto, allenato nella Sala Mangiarotti, uno dei templi della scherma
italiana, la casa di Edoardo Mangiarotti, il campione olimpico ancora oggi più medagliato di sempre.
Anche la Wang, la sua avversaria in quell’assalto nelle eliminatorie dell’Olimpiade di Atlanta, la guarda cadere a terra, tradita da quella gamba, da quel piede destro che fa “stoc”!
E forse pensa che sia finita lì.
Perché gli umani l’avrebbero finita lì.
Non Diana. Non la dea Diana.
E’ il 22 luglio 1996. Il tendine d’Achille si spezza.
Crede di spezzare anche l’equilibrio fisico dell’atleta che rappresenta l’equilibrio mentale all’interno di quel Dream Team, della scherma italiana al femminile.
Il dolore è lancinante, le lacrime sono la risposta che non puoi nemmeno provare a governare. Mettiamoci che Diana è medico fresco di laurea, e quello che le è successo lei lo sa già, come lo sanno il medico federale e tutto il suo staff sanitario.
Quel sospiro sospeso diventa dolore, il dolore di tutti, perché lo sport quando vuole sa dare questi insegnamenti. Sa essere solidarietà corale e sublimarsi oltre ogni rivalità.
Atlanta si stringe intorno a Diana. Ma Diana non ha ancora tempo per abbandonarsi e immergersi in questo bagno d’amore. C’è la pedana, c’è la Wang.
Perché questo è l’altro messaggio meraviglioso dello sport: è finita per tutti in quel momento. Non per lei. E così loro (i medici) la guardano pensando a come lenirle il dolore e a dove fare l’intervento. E a quando potrà tornare. E lei li guarda oltre le lacrime perché c’è una cosa che conta più di ogni altra, che loro non si aspettano.
«Fasciatemi stretta fino al ginocchio, io tiro ancora».
Non ci sono molte strade, perché il corpo da scricciolo ha una testa da dea parecchio ostinata.
Sono secondi… Ci sarebbe da dirle «Tu sei completamente pazza».
E dirglielo, francamente, sarebbe la cosa più giusta, più comprensibile. Lo pensano tutti che è pazza. Ma non ci provano nemmeno a prendere un’altra strada. Diana non ha più lacrime adesso. Gli occhi vedono la pedana e vedono, nitida, la Wang, che a sua volta sta aspettando solo di vederla andare via in sedia a rotelle perché… chi cammina con un tendine d’Achille lacerato? Diana cammina, Diana mia cara Wang.
Le operazioni si allungano.
La cinese prova a capire ma non può capire cosa sta davvero accadendo.
La fasciatura è fatta: stretta. Avrebbe dovuto fasciarseli entrambi al mattino i tendini d’Achille. Sono i suoi punti deboli. Ma le operazioni al controllo sicurezza per entrare nel Georgia World Congress Center, l’hanno spinta a saltare qualche passaggio della preparazione alla gara per non tardare.
Quando la Wang la rivede in piedi, fioretto in mano, pronta alla guardia, qualcosa si è spezzato dentro la sua testa. E pesa di più. Diana saltella su una gamba, è quasi innaturale vederla, ma schizza adrenalina, fa la sua scherma d’assalto. La Wang si sgretola, 15-10, parziale di 8-3.
Con una gamba sola.
L’ultimo punto e poi sì, accasciarsi, abbandonarsi, farsi amare a basta. Quando la sedia a rotelle arriva per
portarla verso la sala medica allestita nel Georgia World Congress Center, eccola la scena che aspettava la Wang: ma di mezzo c’è che Diana Bianchedi l’ha battuta e che quell’assalto, quella vittoria, sono entrati nel mito dello sport di sempre.
E quando Diana rientra nell’arena, sempre in sedia a rotelle, per assistere alle finali che ci porteranno all’oro a squadre, ma senza di lei, Atlanta la ricopre d’amore, come le compagne e come le avversarie che fino a poco prima le si sarebbero avventate contro in pedana per sbranarla.
E allora sì, l’abbandonarsi ora è dolce in questo mare.
Attenzione al finale, perché lo sport insegna ancora: senza lo scricciolo entra in gioco la riserva, Francesca Bortolozzi, esclusa alla vigilia di quell’Olimpiade con polemiche feroci tra lei, il ct Magro e qualche compagna.
«Ma non Diana, sono triste per lei che ora perde la sua occasione mentre io devo sfruttarla in
conseguenza di una sua disgrazia».
Il Dream Team della scherma femminile è fatto di medaglie e di equilibri sottili attraverso vent’anni di trionfi e di atlete che si sono susseguite, con incompatibilità di caratteri forti smussate in funzione della voglia di vincere. Ma far funzionare tutto non è stato facile. E Diana, che in quell’epoca rappresentava il punto di equilibrio della squadra, lo sa molto meglio di altre.
Così arriva la finale contro lo romene. Bortolozzi, come risarcimento parziale da parte del ct che l’aveva esclusa, ottiene di aprire e chiudere l’assalto.
E prima dell’ultimo punto, quello dell’oro, da fuori pedana una voce suona la carica più forte delle altre. Suona dalla sedia a rotelle in cui è seduta lei: «Franci, vai: è fatta».
E’ la voce di Diana.
Perché lo sport insegna che si può essere Unite ma Distanti.
La sua magia, però, è dentro l’attimo in cui ci si scopre Distanti ma Unite.
E questo è uno dei tanti attimi in cui è accaduto.
(liberamente ispirato da “Le leggende della Scherma”, di Fabio Massimo Splendore, Diarkos ed.)