Sara Cardin: “vi racconto il mio mal d’Africa”
Sognare l’Olimpiade. Vedersela sfumare davanti agli occhi. Come un sogno che ti sfugge mentre cerchi disperatamente di afferrarne il ricordo.
Cadere. E provare a rialzarsi. Ancora, ancora. Finché non è troppo. Anche se al collo ti sei già messa tante medaglie, e del metallo più prezioso.
Il dolore intorno a te. La malattia di una persona cara. Certezze familiari che sembrano sgretolarsi. Dubbi, paure. Voglia irrefrenabile di fuggire. Lontano da tutti. E tutto.
Nella vita di ciascuno di noi c’è un punto di rottura. Un momento in cui non riusciamo a respirare. Schiacciati dal senso di smarrimento. Quei problemi che fino al giorno prima affrontavamo con grinta e determinazione, ci appaiono improvvisamente insormontabili. Le delusioni cocenti. Gli obiettivi dissolti. I sorrisi forzati.
In quel frangente della propria esistenza, ognuno reagisce a modo suo.
Sara Cardin è una campionessa. Una lottatrice. Una donna solare. Dall’animo guerriero. Dallo spirito indomabile. Eppure anche lei ha conosciuto il senso della parola “disorientamento”. Improvvisamente le è parso di perdere la bussola.
Gli allenamenti, gli infortuni superati, le ore di fisioterapia, i sacrifici. Tutto si era dimostrato inutile. Aveva fallito l’obiettivo più importante della sua carriera agonistica: la qualificazione ai Giochi di Tokyo, i primi con il karate disciplina olimpica.
Non partecipare a Tokyo è stato un duro colpo da assorbire e, pian piano, da accettare. Avevo vinto campionati europei, mondiali. Scalato ranking. Tutto in attesa di quel momento in cui la mia disciplina, il karate, sarebbe finalmente diventata olimpica. Non mi importava che ci sarei arrivata a 34 anni. Avevo accettato la sfida e mi ero impegnata per conquistare quell’obiettivo, a tutti i costi. Poi, un infortunio dopo l’altro (al ginocchio prima, alla caviglia poi) le mie certezze avevano iniziato a vacillare. Ma non avevo mai mollato. Nemmeno di fronte alla pandemia. Ero tornata ogni volta sul tatami, più forte di prima. Dimostrando tutto il mio valore. Poi, però, avevo dovuto giocarmi la qualificazione in un evento secco. E nel momento decisivo non avevo centrato l’obiettivo. Non ce l’avevo fatta.
Per uno sportivo la partecipazione ad un’Olimpiade rappresenta il momento più alto della propria carriera. Ogni sforzo è teso al raggiungimento di quel traguardo. A maggior ragione se i risultati sono dalla tua parte e se hai tutte le carte in regola per arrivare lì dove hai sempre desiderato essere.
Sara si è dovuta accontentare di vivere i Giochi Olimpici di Tokyo da spettatrice. Dietro un microfono, come commentatrice televisiva su Discovery Channel.
All’inizio avevo rifiutato la proposta. Avevo paura di non farcela, di starci troppo male a commentare un evento di cui avrei voluto essere protagonista. Ma siccome la parte mediatica e giornalistica che ruota attorno allo sport mi aveva sempre affascinato e divertito, alla fine ho accettato. Sapendo che i treni passano una volta. Che sarebbe stata un’esperienza importante, anche in ottica futura. E che, magari, sarebbe stato un modo alternativo per superare la delusione.
Per arrivare pronta e preparata a vestire quei panni inediti per me, ho studiato come se si trattasse di un esame di laurea. E, a detta degli altri, me la sono cavata anche bene. Mantenendo alto l’entusiasmo per tutto il tempo, perché sapevo che mi stavano seguendo da tutta Italia e non potevo cedere alla nostalgia. Cosa che ho fatto solo nel momento della finale, quella dei 55 kg, in cui ho chiesto ad una mia collega di sostituirmi. Perché quella che stava per andare in scena era la “mia” gara. Sentivo che se fossi riuscita a qualificarmi quello sarebbe stato il mio posto. A battermi per la medaglia d’oro. Sono stati tre minuti di silenzio, interminabili per me.
Tornare alla vita di tutti i giorni dopo aver fallito l’obiettivo più importante della tua carriera sportiva è uno di quei punti di rottura da cui è difficile riprendersi. La consapevolezza di non avere un’altra opportunità, per via dell’età, è un boccone amaro da digerire. Se poi ci si mettono anche altre situazioni, familiari e personali, che non girano per il verso giusto, allora il peso diventa troppo grande da sopportare. Anche per chi, come Sara, ha sempre avuto le spalle larghe e un atteggiamento ottimista.
Così un giorno ecco la via d’uscita. Inaspettata. E prepotente. Un viaggio in Africa. Come volontaria.
Decido, mi racconta Sara, di contattare Giusy Laganà, presidente dell’associazione FARE X BENE Onlus, della quale sono testimonial. Le dico: “fammi sparire in qualche posto nel mondo”.
Avrei potuto decidere di partire per una vacanza e affogare, come si dice, i miei dispiaceri nell’alcol. Ma sapevo che non sarebbe servito a nulla. E che al ritorno i problemi sarebbero stati lì ad aspettarmi. Così avevo pensato di fare un’esperienza diversa. Totalizzante. Unica. Non mi importava di ritrovarmi a dormire sotto un albero per due mesi. Stavo troppo male. Avevo bisogno di fare qualcosa per me stessa. E per gli altri. Così avevo accettato come destinazione lo Zambia, quarto paese per malnutrizione in Africa.
Sono partita. Da sola. Dopo aver fatto tutte la vaccinazioni del caso: antimalarica, tifo, colera, coronavirus. E avevo abbracciato quel viaggio come fosse un nuovo inizio della mia vita.
Italia, Etiopia, Africa. Roma-Addis Abeba-Lusaka. In aereo, prima. Poi, a bordo di una jeep.
Slum, baraccopoli oppure compound. È così che vengono chiamate le aree periferiche, gli insediamenti problematici e disagiati delle grandi città africane. Vi vivono i due terzi della popolazione della capitale zambiana. Bauleni è una comunità di circa 80 mila abitanti. Ed è lì che la nostra Sara si è trovata immersa in una nuova realtà, lontana migliaia di chilometri dalla sua Ponte di Piave.
Sono stata ospite a casa di Diego, dell’associazione “In & out of the Ghetto”. La mattina andavamo in giro nei villaggi limitrofi, cercando di dare una mano soprattutto ai ragazzi di strada. Li chiamavamo a raccolta dentro il centro sociale di accoglienza dove, nel pomeriggio, organizzavamo delle attività per loro, tra cui anche lezioni di karate. Già dopo il primo giorno si era diffusa la voce del mio arrivo e della mia presenza si era interessata persino la tv nazionale. Ero la Musungu, la donna bianca.
Tra le esperienze più significative anche quella come inedita allenatrice di un gruppo di ragazze musulmane, vittime, molto spesso, di violenza domestica. Ero stata chiamata dal capo stesso della comunità islamica zambiana che aveva sentito parlare di me. Ricorderò sempre il timore e il rispetto con cui mi sono relazionata a queste ragazzine completamente velate e coperte dal burqa. I loro sguardi mi penetravano nel profondo dell’anima.
In un altro centro ho invece avuto l’onore di conoscere padre Kizito Sesana, il padre di tutti i missionari, socio fondatore dell’ONG Amani Onlus.
Ho visitato, inoltre, vari villaggi dove stavano costruendo pozzi e scuole. E ho capito che l’Africa è un posto in cui basta poco (anche economicamente) per dare tanto.
Infatti, fuori dalle baraccopoli in Zambia, così come in tutta l’Africa, ad oggi si vive una realtà ancora più disagiata. Mancano i servizi essenziali. Le strutture sanitarie, gli ospedali, le scuole. Ma soprattutto beni primari: l’acqua, l’elettricità.
Ho visto grandi e piccini lavarsi in un fiume che assomigliava più ad un fossato sporco. E bere quella stessa acqua per cercare di dissetarsi, con tutto ciò che può comportare in termini di malattie. Ragazzi che sniffano la colla per non sentire i morsi della fame. Un pasto al giorno, due se la giornata è fortunata. Situazioni di profondo ed estremo disagio vissuti con grande dignità. E sorrisi. Nonostante tutto.
Occhi immensi. Sguardi profondi. Sorrisi genuini. In Africa si percepisce la sostanza e l’essenza della nostra vita, crudele e gioiosa allo stesso tempo.
L’Africa è un pensiero, un’emozione, quasi una preghiera. Lo sono i suoi silenzi infiniti. I suoi tramonti. Quel cielo che sembra molto più vicino del nostro.
CLAUDIA CARDINALE
L’esperienza in sè è stata bellissima, continua Sara. Perché ti rendi conto dei veri valori che dovrebbero contare nella vita.
Avrò fatto sì e no due docce, con l’acqua sporca. La facevo bollire, aspettavo che si raffreddasse, poi con il secchio la prendevo e me la tiravo sopra la testa. Tornando a casa, poi, anche il semplice gesto dell’aprire un rubinetto e sentir scorrere l’acqua, diventa un momento da assaporare ed apprezzare.
In Africa non si pensa a ieri, al domani, al futuro. E nemmeno al passato. Si pensa all’oggi.
A cosa mangiare per cena al massimo. Lì i bambini riescono ad essere felici con poco. E con poco giocano tutto il giorno. Sono autonomi, crescono anche più velocemente.
Il contatto con la natura, il rispetto per gli animali, per l’Africa stessa. La solidarietà e l’aiuto reciproco. L’invadente sensazione di benessere che suscita l’essere un tutt’uno con la Madre Terra.
L’Africa sostanzialmente mi ha lasciato dentro tanto amore, tanti colori, tanta libertà. Senso di completezza. Sono partita che avevo i pezzi di Sara sparsi un po’ di qua e un po’ di là e sono tornata integra. L’Africa mi ha fatto entrare in contatto con me stessa, mi ha dato il tempo di sentirmi, di vivermi. Intensamente.
Ogni momento vissuto in Africa è un tassello di vita che non scompare più. Rimane dentro. In un angolo nascosto della mente e del cuore.
L’Africa ti contagia perché ti circonda di un’energia particolare che è difficile anche descrivere a parole. Ogni persona è estremamente grata di ciò che ha. Minuto per minuto, ora per ora, giorno per giorno. E ogni cosa che tu fai viene apprezzata.
Qui è il mondo del disvalore, del tutto subito. dell’usa e getta.
Lì è tutto molto più prezioso.
Una sola cosa volevo: tornare in Africa. Non l’avevo ancora lasciata, ma ogni volta che mi svegliavo, di notte, tendevo l’orecchio, pervaso di nostalgia.
HERNEST HEMINGWAY
L’Africa è una carrellata di contraddizioni. Gesti, sguardi, sorrisi, scoperte quotidiane. Che la rendono unica. E misteriosa. Chi ha la fortuna di vivere l’Africa da vicino, almeno una volta, sa che dovrà tornarci ancora. Sentirà il bisogno fisico di rivivere quegli attimi, di ritrovare quella pienezza di sentimenti, di poter godere degli uomini e dei paesaggi che la animano e la circondano.
E’ il luogo delle emozioni. Negative e positive. Tutte ugualmente forti. Da quel bambino bellissimo e desideroso di amore a cui mi sono così tanto affezionata. A quel tramonto di fronte al quale ho pianto, perché ho sentito forte la distanza tra l’Africa e il resto del mondo. Il rammarico di voler aiutare tutti e subito, sapendo che è impossibile riuscirci. La soddisfazione di poter essere utile con poco, anche solo con una Tachipirina che hai nello zaino e che dai alla persona che incontri ai bordi della strada con 39 di febbre, salvandogli magari la vita. La bellezza di un cielo stellato, luminoso e brillante come solo lì può essere. L’assenza degli anziani. I bimbi che per andare a scuola si fanno dieci chilometri in mezzo alla savana.
All’inizio ero la “donna bianca nell’Africa nera”. Gli ultimi giorni ero diventata semplicemente Sara.
Una Sara che oggi rifarebbe subito quell’esperienza e che ha rischiato anche di non tornare a casa.
Sicuramente in futuro ci tornerò. Magari proprio nei posti dove sono già stata. Un’esperienza che tanti dei nostri ragazzi dovrebbero fare per rendersi conto di tante cose. Dei valori veri che realmente contano soprattutto. E’ un’ esperienza molto forte, ma se la prendi dal punto di vista giusto ti arricchisce così tanto che ritorni nel tuo mondo di tutti i giorni con una prospettiva sulla vita, sulle cose e sulle stesse relazioni umane completamente diversa.
Ora capisco e so perché tante persone partono e non tornano più indietro.
Perché l’Africa ti conquista. Perché il mal d’Africa esiste davvero.
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