La cultura della violenza non uccide solo alle Isole Faroe
Sono giorni che faccio di tutto per evitare le terribili immagini che circolano in rete sul massacro di quasi 1500 delfini alle Isole Faroe. Non voglio vedere non per nascondere la testa sotto la sabbia e fare finta di nulla. Non voglio vedere perché mi si spezzerebbe ancora di più il cuore.
Ho questo problema con la violenza in generale. Posso studiare e leggere di violenza, ascoltarne le testimonianze. Ma non riesco a guardare immagini e filmati che la rappresentano. Mi sento male, letteralmente.
Questo però non significa che io giri la testa dall’altra parte, anzi. Mi informo, mi documento e poi condivido il più possibile ciò che ho appreso. Perché la verità deve essere conosciuta e tuttə devono sapere. Solo la conoscenza può portare alla consapevolezza e quindi al cambiamento.
COSA È SUCCESSO ALLE ISOLE FAROE
Quello che è successo domenica alle Isole Faroe lo sappiamo tuttə. Quasi 1500 cetacei, per l’esattezza 1428, tra delfini e globicefali (le balene pilota), sono stati brutalmente massacrati, dopo essere stati lasciati per ore in agonia nelle acque basse della spiaggia di Skálabotnur, sull’isola di Eysturoy.
Una carneficina disumana e bestiale, che ha sporcato il mare di rosso e di morte. Una mattanza senza precedenti nella storia. Mai come domenica erano stati uccisi tanti cetacei nello stesso posto nello stesso giorno.
Un evento che ha scosso non solo l’opinione pubblica mondiale, ma anche alcuni abitanti locali, abituati e legati a questa caccia.
MA PERCHÉ?
La prima domanda che sorge spontanea è “ma perché fanno tutto questo?”
Come spesso accade, anche nelle pratiche più terribili, si tratta di cultura. Sì, perché la caccia ai cetacei, in faroese “Grindadráp”, è una tradizione centenaria, molto sentita dalla popolazione e accettata dalle autorità locali.
Le isole Faroe si trovano nel nord dell’Oceano Atlantico e sono caratterizzate da un clima e un territorio che non permettono grandi coltivazioni. La sopravvivenza della popolazione è da sempre basata sugli allevamenti e la caccia. La “Grindadráp” per secoli ha assicurato cibo a tutta la popolazione, che si divideva in modo equo la carne cacciata. Era inoltre un importante momento di aggregazione e unione sociale. Ecco perché è ancora una tradizione così sentita e tutelata dagli autoctoni. Nonostante anche alle Isole Faroe oggi siano ben diffusi i supermercati, che permetterebbero di vivere senza dover massacrare centinaia di mammiferi con questa pratica brutale.
RIFLESSIONI
Non sono qui però per raccontare quanto accaduto domenica, dato che questo è stato già ampiamente fatto da ogni testata giornalistica. Quello che vorrei è più che altro condividere con voi alcune riflessioni, che ho maturato dopo aver visto le storie instagram di @aliceful.
Alice, alias @aliceful su IG, è una donna incredibile che racconta e parla di stili di vita eco sostenibili, etici e consapevoli. Il suo profilo è bellissimo e soprattutto super interessante e vi consiglio vivamente di seguirlo.
Il messaggio che emergeva dalle sue storie e che mi ha fatto molto riflettere è il seguente. Quello che è avvenuto domenica alle isole Faroe è terribile e da condannare. Siamo tuttə concordi su questo. Ma quanto siamo migliori “noi” rispetto ai faroesi? Quanto è diverso il massacro di domenica da quello che ogni giorno viene compiuto negli allevamenti intensivi di tutto il mondo? Italia compresa!
LE FAROE E GLI ALLEVAMENTI INTENSIVI
La risposta a questi interrogativi fa male al cuore, perché mette in luce una verità scomoda e dolorosa. Un verità che sporca le nostre mani di sangue tanto quanto il mare della spiaggia faroese di Skálabotnur.
La verità è che è peggio ciò che viene fatto ogni giorno negli allevamenti industrializzati italiani e mondiali, rispetto alla “Grindadráp”. Vi sembra impossibile? Eccovi alcuni dati.
Nel nostro bel Paese a giugno 2019 sono stati registrati quasi 270 000 allevamenti intensivi attivi che ospitano più di 11 600 000 animali tra bovini, ovini, bufalini e caprini. Nel 2020 sono stati macellati 573 000 000 di polli solo in Italia.
In soli sessanta secondi, negli allevamenti italiani, vengono macellati 958 animali, ossia 57.400 al giorno.
Numeri impressionanti di una carneficina che ogni giorno avviene non in un’isoletta sperduta nell’Oceano Atlantico, ma a casa nostra. Un massacro che tuttə noi perpetriamo ogni giorno attraverso le nostre scelte alimentari e i nostri stili di vita. Pratiche barbare e crudeli che anche nel nostro caso, esattamente come nelle Isole Faroe, sono accettate, tutelate e legittimate dalla cultura e dalle leggi.
Paradossalmente la caccia alle balene faroese è anche meno impattante sull’ambiente, rispetto agli allevamenti intensivi. I quali, come vi racconto in un mio precedente articolo, rappresentano una della principali cause (se non quella principale) della crisi climatica in corso.
E se vogliamo dirla tutta è anche meno ipocrita, dato che viene svolta alla luce del sole. Al contrario di ciò che avviene nei macelli e negli allevamenti industrializzati, dove tutto viene tenuto ben nascosto.
LA CULTURA PUÒ ESSERE CAMBIATA
Non sto dicendo che la “Grindadráp” quindi vada bene. Condanno quella pratica tanto quanto condanno le violenze e le torture che vengono inflitte quotidianamente in Italia e nel mondo agli animali. Soprattutto a quelli stipati, torturati e uccisi negli allevamenti intensivi e nei macelli. In nome del nostro piacere sfrenato e delle nostre tradizioni. E sopratutto del nostro egoismo.
Condanno la nostra ipocrisia, che ci fa sentire migliori rispetto ad altre culture, diverse dalla nostra. La stessa ipocrisia che ci fa (giustamente!) scandalizzare per le leggi talebane, ma poi definisce goliardia il cat calling o i cori sessisti allo stadio rivolti ad una donna che sta lavorando. Perché diciamolo ancora una volta, quello che è successo domenica al Ferraris di Genova non è goliardia, ma è violenza.
La verità è che prima di puntare il dito verso l’esterno, dovremmo farci un esame di coscienza e mettere in discussione noi, i nostri atteggiamenti e comportamenti. Perché anche noi uccidiamo e siamo violentə in nome della nostra cultura.
La cultura però non può essere un alibi dietro il quale nasconderci. La cultura la creiamo noi e quindi possiamo cambiarla. E come spesso mi piace ricordare, lo possiamo fare ogni giorno, anche attraverso le più piccole azioni.
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