Se l’estate è finita
Sono tornata dalle ferie in Sicilia e dal bagaglio ho tirato fuori, insieme a qualche pezzo di tavola calda, anche la consapevolezza che l’estate è già finita.
Sarà la pioggia che sta cadendo copiosa ogni giorno da giorni o che da quando sono rientrata non ho smesso di lavorare un giorno. Che l’abbronzatura, doccia dopo doccia, si sta lavando via. Sarà che con la finestra aperta la notte il lenzuolino finisco per cercarlo. Ma per me i Righeira possono iniziare a schiarirsi la voce chè come ogni anno, anzi quest’anno a Milano prima del consueto, è arrivato il momento di intonare il loro grande successo.
Perché se mi fermo un attimo e interrompo questa cosa compulsiva del fatturare, realizzo che per me l’estate è davvero finita. E se a questa rivelazione vi trema il mento e gli occhi vi si fanno lucidi avete ragione, qui c’è grande costernazione.
Accettare che questa stagione, con i suoi 35 gradi, il mare delle Egadi, la pasta alla norma, il tonno in agrodolce, la granita ai gelsi, il costume bagnato fino a ora di cena, lo Scirocco e il profumo di melanzane fritte, l’odore del sole sulla pelle e quello del gelsomino che esplode la sera, si è conclusa qui è non poco angoscioso.
Se è vero che lasciare questa abbondanza di bellezza (da me malamente solo riassunta sopra) è sempre traumatico, è certo che farlo quando non si è ancora sazi è un errore.
Uno sbaglio di cui dovrei ricordarmi ogni volta che stacco il biglietto del ritorno e stabilisco che va bene così, due settimane sono sufficienti per riassaporare casa e che un giorno in più non cambia niente.
Un giorno in più, invece, è un’altra boccata di ossigeno ma anche un altro boccone di uno dei mie piatti preferiti. Un giorno in più è quello che vorrei sempre avere alla vigilia della partenza. “Se avessi un giorno in più”, il ritornello che mi ripetevo ai tempo dell’università a ridosso di un esame. È, alla fine, solo un’illusione. Di poter rimediare o di poter accaparrarsi ancora un’altra fetta di felicità.
Perciò quell’ultimo giorno prima del ritorno è un concentrato di sensazioni e di buffi tentativi di fare scorta di bellezza. Apro di più gli occhi e mi guardo di più attorno perché così mi restano più immagini da portarmi dietro. Respiro più a fondo perché il profumo del mare e dei limoni Milano non lo vende e allora devo portarlo su da casa. Ascolto le cicale che sono un tormento ma accompagnano l’attesa del pranzo sulla mia amaca sotto l’ulivo ed è talmente un momento di meraviglia che potrei digiunare.
Potrei ma non lo faccio mai in terra sicula. Mangiare è ricambiare un gesto d’amore che compie chi cucina per te. Non è solo l’azione in sé ma anche l’intenzione e l’intento. L’intenzione di preparare piatti che ti piacciono con l’intento di farti felice.
Ogni volta che mio padre va a comprare il pesce e mia madre lo cucina si consuma un atto d’amore per me. E forse è per questa consapevolezza che il pesce giù mi sembra più buono.
Il ritorno dalla Sicilia, quando questa è anche casa, è un atto di coraggio. E lo sa chi attraversa lo Stretto e se la lascia alle spalle e chi prende un aereo e la guarda dall’alto. Non biasimo chi legge in questo retorica, sentimentalismo, patetico romanticismo meridionale. Avete forse anche ragione perché questi panni non li indossate. Voi, che al mare ci andate in mocassino e camicia di lino, casa ce l’avete da un’altra parte.
Comunque, a parte qualche momento di defaillance, dopo due settimane dal rientro sono di nuovo in modalità “Milanomipiaceecistobene” e la fattura del mese mi ricorda sempre perché l’ho scelta.
E poi nei momenti di nostalgia mi basta aprire un barattolo. Quello del tonno sott’olio preparato dai miei.
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