Quello che so sul calcio
Io di calcio ne so poco. Non mi sento di dire “niente” perché non è vero. Io non so niente di illuminante e blush. Non so che funzione abbia il primer ma ho una -seppur imprecisa- idea di cosa faccia il quarto uomo.
Poi la mia contezza di schemi di gioco, contropiede e possesso palla è abbastanza limitata e sono certa che non colmerò mai la lacuna del fuorigioco. Il mio cervello avrebbe meno difficoltà a immagazzinare concetti di fisica quantistica ma questa regola è proprio fuori dalla mia portata. So di essere in buona compagnia e so di alimentare quel cliché tutto maschio sulle donne, eccezion fatta per la Ferrari, la Leotta e la D’Amico (e non metterei la mano sul fuoco per una delle tre).
Però a me il giuoco del calcio piace. Mi piace perché è lo sport più seguito e più praticato a casa mia. Mio padre giocava, i miei fratelli hanno giocato e mia madre lavava i completini. Ognuno aveva un ruolo in qualche modo. Allenamenti dopo i compiti, tornei e trasferte con genitori agguerriti che incitavano i figli a prestazioni migliori. Padri che tenevano a quel pallone e a quel gol più di quanto importasse al figlio in campo. Quel gioco si faceva troppo serio per qualcuno e a divertirsi non restava quasi più nessuno.
Mi sento di dire che tra i pochi a giocare e basta erano rimasti i miei fratelli, il sogno della scalata verso l’Olimpo del calcio non li ha mai ossessionati. Hanno smesso di stare in campo ma hanno continuato a tifare. Però dei tre maschi di casa è mio padre il più appassionato. Serie A, serie B, serie C, pulcini di Busto Arsizio: qualsiasi categoria è meritevole di attenzione e di entusiasmo sotto gli occhi giudicanti di mia madre che, alla fine, la domanda gliela fa sempre. “Chi ha vinto?”.
Qualche settimana fa, dopo giornate campali trascorse a imbiancarmi casa e a piastrellarla, passiamo davanti a un campo e lui: “Sono stanco ma una partita me la farei lo stesso”. E l’ho capito cosa prova. Succede anche a me: “sono sazia, ma un gelato me lo mangerei lo stesso”.
È per questo entusiasmo che mi piace il calcio. Per quello di casa mia ma anche per quello di fuori, di tutti quelli che a questo sport sono legati, di tutti quelli che da questo sport sono legati.
Perché è una lingua che unisce chi lo ama e lo guarda. Ma anche chi lo pratica. Se il fuorigioco per me rimane un mistero, c’è qualcosa che riesco a spiegarmi ancora meno. Com’è possibile che giocatori e arbitri riescano a capirsi nonostante nazionalità diverse?
Come può intendersi un attaccante nato a Frattamaggiore, cresciuto a Napoli, con un avvocato di Monaco di Baviera che oltre a essere tedesco è pure arbitro? Eppure pare comunichino, si capiscano e questa cosa mi sembra bellissima. Poi non so, magari Insigne ha un livello C1 di inglese e quella cadenza partenopea in campo internazionale lascia spazio all’accento di Cambridge. A me comunque piace pensare che la torre di Babele si sgretoli davanti a un pallone e a un rigore immeritato.
Il calcio mi piace ma di più mi piacciono le emozioni e le reazioni di chi lo ama. Forse perché non c’è niente che a me appassioni così, a parte i carboidrati, ma con quelli so sempre come va a finire la partita.
Comunque anche per questa finale degli Europei io ci sono, davanti alla tv ma nelle file dietro i tifosi di casa mia. Ché comunque andrà sarà uno spettacolo.
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