Magazzino 18. Parte I

Magazzino 18. Parte I

Il calvario e l’agonia. Il tempo che si ferma. Pola e il Toscana. Trieste e il Porto Vecchio. Il Magazzino 18. Quadri, cornici, mobili, letti, raffigurazioni religiose e moltissime sedie. Sotto ogni sedia, il nome del proprietario. Italiani, fuggiti da Fiume, Istria e Dalmazia. Testimonianza di una storia non raccontata. Sevizie, torture e stupri. Pulizia etnica. Foibe. Annegamento con pietra al collo. Fosse comuni. Esodo, sradicamento e fuga disperata. Un treno lento e veloce. La vergogna di una fermata chiamata Paradiso. Uno strazio taciuto, un genocidio per troppo tempo non riconosciuto. In una storia che va ricomposta, per dare dignità a chi per anni ne è stato privato.

Tra il 1943 e il 1954, trecentocinquantamila italiani hanno dovuto abbandonare la loro terra natale. Pola, Fiume e Zara. Erano province italiane allora.

Un esodo. Per sfuggire alle persecuzioni e al processo di snazionalizzazione di quei territori, da parte del regime jugoslavo, instaurato dal maresciallo Tito. Infatti, all’indomani del Trattato di Parigi del 10 febbraio 1947, con quella che non fu una semplice resa, quelle terre vennero definitivamente tolte all’Italia.

I massacri di civili e militari, iniziati in Istria e Dalmazia nel 1943, dopo l’armistizio dell’8 Settembre, continuarono con ferocia dal Maggio 1945 in poi, quando le truppe della ex Jugoslavia invasero tutta la Venezia Giulia di allora fino alle porte di Udine.

Si svuotarono interi villaggi e città.

Le strade deserte, le imposte sbarrate. Il martellare dei chiodi sulle casse. Chiodi, più preziosi dell’oro e pesati su bilancini. L’Arena di Pola mutilata e messa nelle tasche, come ricordo da conservare nel lungo peregrinare. Le salme dei parenti riesumate, per essere portate nella terra dove riposare in pace per sempre. Suppellettili trascinate via, con l’illusione di riprendere la propria vita lasciata in sospeso. Non fu un trasloco. Non fu volontario. Uomini, donne, famiglie intere furono strappate dal loro suolo natio.

Magazzino-18
Magazzino 18

Costretti a lasciare la terra a cui appartenevano, gli Italiani giunti in Italia dovettero distaccarsi anche dai propri beni materiali che avevano trasportato in quel viaggio verso la speranza. Dovettero abbandonare ogni loro cosa nel Magazzino 18. Perché non c’era spazio nei campi profughi dove venivano condotti.

Magazzino 18
magazzino-18
Magazzino 18

Il Magazzino 18. Custode di un tempo non del tutto riabilitato. Tempio della memoria degli esuli che arrivarono a Trieste, per sfuggire alla pulizia etnica e per non rinnegare la propria italianità. Un posto unico. Sospeso, forse, in un’altra dimensione. Divenuto famoso grazie allo spettacolo messo in scena nel 2013 da Simone Cristicchi.

Eravamo solo Italiani. Italiani dimenticati in qualche angolo della memoria, come una pagina strappata dal grande libro della storia.

Magazzino 18 – Simone Cristicchi

Gli esuli partirono, imballando tutta la loro vita, confidando nell’abbraccio dell’Italia. Invece l’accoglienza fu ben diversa dalle loro aspettative. Emblematico il caso della stazione ferroviaria di Bologna. Lì, nel 1947, una folla inferocita prese a sassate un convoglio con a bordo centinaia di profughi italiani. Non volevano farli scendere. Anche i ferrovieri si ribellarono. Partì lo sciopero. E il più importante snodo ferroviario del Paese si bloccò. Il latte destinato ai bambini venne rovesciato sui binari e il cibo gettato nell’immondizia, pur di non darlo agli occupanti del treno.

Colpevoli di essere italiani, nelle loro terre. Colpevoli di essere stranieri, nella loro Patria.

Marisa Brugna è nata nel 1942 ad Orsera in Istria, oggi comune della Croazia chiamato Vsar. Nel 1949 Marisa intraprese il viaggio che la obbligò a vivere nei Centri Raccolta Profughi in Italia.

Avevo sei anni e mezzo quando fummo costretti a partire. Ero contenta perché andavo in Italia. Ormai le mie amichette non c’erano più. Le cercavo, sbirciando nelle loro case. Persone sconosciute adesso erano i nuovi proprietari. E mi scacciavano gridando: “via italiana!”.

Era serena e raggiante Marisa all’idea di partire. Perché il suo mondo era scomparso. Vedeva bruciare i libri, i nuovi padroni ballare nelle Chiese e la fotografia di Tito appesa in ogni casa, come le autorità imponevano.

Momenti, giorni di caos e disperazione. Il papà che impazziva di rabbia alla vista dell’immagine di Tito. Sparito nel nulla, di notte, come tanti altri, perché non voleva rinunciare al suo essere italiano. La mamma vestita a lutto. Poi la ricomparsa paterna, improvvisa e inaspettata. La notizia devastante che sua sorella maggiore stava per essere prelevata.

C’era l’obbligo infatti di cedere i propri figli, dal quindicesimo anno d’età, per il lavoro volontario della campagna comunista.

Venivano prelevati, veniva fatto loro il lavaggio del cervello, tornavano dopo mesi con la divisa comunista e senza più identità. E il papà non poteva accettare la distruzione di sua figlia. Né poteva rinnegare il suo passato e il suo essere italiano.

La famiglia di Marisa lasciò quel suolo ormai snaturato. Non c’era più nulla di conosciuto. Erano spariti gli odori del loro cibo, scomparsa l’allegria e la voglia di ridere. C’erano solo i 3 etti di chiodi da prendere, per imballare le casse.

Costretti a lasciare. Nella convinzione che l’Italia avrebbe messo di nuovo mano a quel trattato e che tutto si sarebbe sistemato.

Dal giorno della partenza non ho più sentito mio padre fischiettare. L’ultima volta che lo fece era dicembre, mentre mi faceva fare un giro di valzer per il mio compleanno. E’ stato anche quello un modo di morire.

Marisa era contenta mentre si allontanava da quel posto triste e grigio. Sulla barca che li portava in Italia, però, calò un silenzio irreale.

Ricordo mamma e papà abbracciati e con le lacrime, con lo sguardo verso il paese che lasciavano. E che non avrebbero mai più rivisto.

Magazzino 18

Quando arrivai a Trieste credevo di essere in una favola. Tutto era grandioso e pieno di luce. C’erano i Carabinieri a cavallo e c’erano le macchine. Tutto mi sembrava magnifico. E invece mi ritrovai nella grande stalla che era il Silos. Dove c’erano i profughi, le loro valigie, gli odori di tutti, la promiscuità, il fracasso. E il papà seduto, immobile, con la testa fra le mani.

Dura la vita per una bambina vivace e allegra come Marisa. Non le era permesso giocare con le altre bambine, che non erano esuli come lei. E dal Campo profughi di Trieste a quello di Latina, poco cambiò.

Il sapone restava sempre un bene prezioso, a causa della convivenza forzata con così tante persone. L’emancipazione delle donne non era ben vista. Le capacità dei padri non venivano riconosciute.

Dopo i quattro mesi al Campo di Latina, la famiglia si trasferì in quello di Marina di Carrara.

Per arrivare si prendeva un treno e poi un autobus. La fermata più vicina al Campo si chiamava Fermata Paradiso. Un nome celestiale. Faceva immaginare il sole, il bello. Io ero predisposta alla felicità. Ancora una volta mi sbagliavo. Chi scendeva lì veniva guardato male. La gente sapeva che eravamo gli esuli destinati al Campo. E allora molti, per non sentire addosso quello sguardo di disprezzo, scendevano una fermata prima, percorrendo così a piedi molta strada.

Marisa e la sua famiglia scesero dall’autobus e in lontananza videro la spiaggia e il mare. Purtroppo non li aspettava la libertà. Per i successivi dieci anni la sua esistenza fu rinchiusa dietro una rete. In un piccolo alloggio. Con nessuna intimità. Pochi soldi con i quali sopravvivere, guadagnati a giornata dal padre contadino e dalla madre domestica.

Un futuro senza prospettive. Tuttavia Marisa decise di opporsi al suo destino, già tracciato con l’avviamento, ribellandosi perfino ai genitori pur di frequentare le medie e cullando il sogno di diventare maestra.

Avevo un papà monumentale. Malgrado gli sputassero vergogna, lui mi insegnava il rispetto verso tutti. Quando mi resi conto che un uomo così non sapeva leggere decisi che sarei diventata maestra, per poter insegnare ed essere d’aiuto anche a una sola persona. La scuola è stata il mio sacrario.

Marisa vide morire prima i vecchi, ma non si spaventò. Poi ad ammalarsi e morire iniziarono anche i più piccoli. Disgraziatamente era scoppiata un’epidemia di tubercolosi. Per non farli ammalare, lei e altri bambini furono mandati per un anno in montagna, a Cima Sappada.

Marisa era gracile e minuta. A causa dell’affetto che le dimostrava una maestra, dovette subire angherie e ritorsioni da parte della direttrice, disumana e gelosa. Si ammalò e divenne anoressica, termine ancora sconosciuto in quel periodo.

Ricevevo tante punizioni da quella persona. Ero il capro espiatorio.

Ad esempio mi rinchiudeva nel pollaio con le galline. Riuscivo a salvarmi e non impazzire grazie alle mie letture, immaginando le nuvole trasformarsi in mia mamma, in un principe o in un tappeto volante. Oppure mi puniva impedendomi di bere acqua, a tavola o altrove, e obbligando le mie compagne a fare la spia, nel caso in cui si fossero accorte che mi dissetavo.

Un giorno a tavola c’era una minestra di lenticchie. Io che stavo già male con lo stomaco mi imbarazzai ancora di più. Finii col buttare tutto fuori, nel piatto che avevo davanti. La Direttrice mi prese e mi fece ingoiare il mio vomito. Non ho più assaggiato lenticchie per decine di anni. Solo dopo aver scritto il libro e aver raccontato la mia storia ho ricominciato a mangiarle.

Finito l’anno di assistenza in montagna, Marisa tornò al Centro di Marina di Carrara. Era una bambina, scatenata nei giochi e aperta agli altri, in cerca di amici con cui condividere esperienze e risate. Nel campo trovò un compagno di giochi adulto, che tutti chiamavano nonno. Una persona rivelatasi indegna, anche della fiducia che i genitori riponevano in lui. Marisa fu vittima di molestie, da parte di quell’uomo.

Io avevo un papà straordinario che, malgrado la nostra situazione di profughi, lo denunciò. Nel processo però non ottenemmo giustizia. Io ero stata sporcata. I miei genitori covarono ancora maggiore amarezza.

Mentre Marisa trovava conforto negli gli studi e nei libri, in Sardegna, vicino ad Alghero, si stava ricostituendo un borgo istriano. La famiglia di Marisa decise allora di trasferirsi in terra sarda.

Lo sbarco sull’isola donò a Marisa la consapevolezza di aver trovato finalmente una casa vera. Realizzò i suoi studi a Sassari e cominciò la sua lunga attività di insegnamento, durata trentotto anni.

A Fertilia istriani e dalmati costituiscono una parte rilevante degli abitanti. Qui Marisa ha trovato, quella che lei stessa chiama, la sua “giusta libertà”. Oggi ha tre figli e cinque nipoti, è vedova di un marito adorato che l’ha colmata di amore e rispetto. E, nella nostra articolata conversazione, mi ha raccontato che adesso riesce ad assaporare ogni cosa. Un tramonto o il profumo di un fiore. Perché tutto è vita e libertà.

Magazzino-18
Magazzino 18

Il libro da lei scritto ha contribuito a fare letteratura e ricordare il dramma vissuto dalla sua gente. Ha voluto raccontare per la sua famiglia, rivolgendosi agli studenti e alle loro mamme, sottolineando quanto sia fondamentale il rispetto di ogni essere umano, indipendentemente dal suo status.

L’animo di Marisa è ancora turbato dalle umiliazioni subite. Rivive ogni singolo istante in cui le è stato rinfacciato l’essere una profuga.

Ricordo gli sguardi, la vergogna, la rabbia, le parole di papà: “comportati bene perché dobbiamo dimostrare di essere brava gente”. Dovevamo dimostrare. Eppure eravamo noi che stavamo pagando i debiti di guerra, di un’Italia sconfitta.

Sulla nostra pelle erano state cucite delle etichette. Gli uomini avevano quella di essere fascisti, le donne di essere di facili costumi. Devo ringraziare la tenacia istriana e l’esempio coraggioso dei miei genitori, per non essere crollata.

Siamo stati vittime della pace e di una verità non raccontata oppure riportata male. I nostri genitori sono stati degli eroi, nella fermezza morale e nella fierezza di essere italiani.

Italiani due volte. Per nascita e per scelta.

Gli esuli erano stati forzati a scappare e lasciare quelle terre che, dal 1943, erano diventate per gli italiani luogo di tortura e morte da parte dei militari iugoslavi, per i quali tutto ciò che rappresentava lo Stato Italiano doveva essere decapitato.

Lo scontro fu sociale, etnico e ideologico.

Una carneficina insensata. Le popolazioni civili italiane agli occhi della popolazione slava sono improvvisamente sovrapposte all’invasore militare, sono ora nemici. Peggio, traditori e nemici.

Dal documentario: Esodo, la memoria negata

Colpevoli di essere italiani e considerati nemici del popolo iugoslavo. Uccisi e gettati nelle foibe. Quei buchi nella terra, naturali e molto profondi, della regione del Carso, tra il Friuli-Venezia Giulia e le odierne Slovenia e Croazia. Lì venivano scaraventati vivi o morti. Donne e uomini, adulti e bambini.

Come Rino, di 14 anni, gettato nella fossa con la madre. Oppure Alice, 13 anni, stuprata e gettata nella foiba. Come Graziella di 5 anni, insieme ai fratellini Martino, Nerina e Valentino, di 4, 2 e 10 anni. E come Romano con la sorellina Pasqualina Maria di un anno e mezzo. Oppure Eva di 15 anni, insieme al fratello Aurelio di 17. E ancora, Pietro di 14 anni. Ines Maria e Vinicio, entrambi di 17 anni.

Ascoltate le parole di Simone Cristicchi.

Ancora oggi si cercano tracce. Si scava e si trovano conferme. Vittime riconosciute e ignote. Infoibati non casualmente dai partigiani italo slavo comunisti di Tito.

Non dimentighemo

Molti anni fa, quando ancora andavo a scuola, a casa udivo mio papà parlare dell’Istria, di Fiume, della Dalmazia e pronunciava la parola foibe. Era un vociare lontano, quasi fuorilegge. Non riconoscevo quelle parole, che nei libri non figuravano. Da appassionata di storia ho dovuto studiare per conto mio, leggere e mettere qualche toppa a una lacuna enorme. Uno spazio vuoto degli eventi. Un buco nero dove sono stati gettati e fatti sparire accadimenti, torture, morti e dolore. Una mancanza umana.

La memoria e il ricordo sono importanti e necessari. Per condannare ogni tipo di odio e violenza. Per non screditare nessuno.

Il ricordo però non è solo un giorno segnato sul calendario. E’ giunto il momento che abbia lo stesso rilievo della memoria, e che venga restituita la dignità a chi, con la schiena dritta e sempre a testa alta, anche nella più grande miseria, ha costantemente mostrato valori, rispetto e fierezza.

Tutta la storia, di cui una metà è illuminata e l’altra metà è oscurata, assume un’aria non veritiera e non convincente.

paolo mieli

Stasera, invece di guardare una puntata della vostra serie preferita, cliccate qui e guardate Esodo. Cinquantadue minuti che parlano alle menti e al cuore. Immergetevi nei silenzi di città che vengono abbandonate, asciugate le lacrime di Licia Cossetto, emozionatevi con i racconti degli esuli e piangete insieme al fotografo sceso in una foiba. Farà male lo so. Però quanto bene farete voi alle generazioni future? Abbiamo il dovere di consegnare tutta la storia, distinguendo il bene dal male. Perché il dolore non ha colore.

La seconda parte di Magazzino 18 potrete leggerla la prossima settimana nella rubrica Libera-mente su www.distantimaunite.com. Nell’immagine di copertina: Geraldine Chaplin, interprete di Red Land.

SEGUI DISTANTI MA UNITE! Se ti è piaciuto l’articolo lascia qui di seguito il tuo commento e partecipa al nostro sondaggio perché La tua opinione conta! E soprattutto non dimenticarti di seguire le nostre pagine social Facebook, Twitter e Instagram! Ti aspettiamo con un ricco calendario ogni giorno pensato per voi!

Sabrina Villa

Per Vasco “Cambiare il mondo è quasi impossibile -Si può cambiare solo se stessi - Sembra poco ma se ci riuscissi - Faresti la rivoluzione” . Ecco, in questo lungo periodo di quarantena, molti di noi hanno dovuto imparare nuovi modi, di stare in casa, di comunicare, di esternare i propri sentimenti. Cambiare noi stessi per modificare quello che ci circonda. Tutto si è fermato, in attesa del pronti via, per riallacciare i fili, lì dove si erano interrotti. I pensieri hanno corso liberamente a sogni e desideri, riflessioni e immagini e, con la mente libera, hanno elaborato anche nuovi modi di esternazione e rappresentazione dell’attualità. Questa è la mia rubrica e io sono Sabrina Villa. Nata a Roma e innamorata della mia città. Sono un'eclettica per definizione: architettura, pittura, teatro, cucina, sport, calcio, libri. Mi appassiona tutto. E' stato così anche nel giornalismo, non c'è ambito che non abbia toccato. Ogni settore ha la sua attrattiva. Mi sono cimentata in tv, radio, carta stampata. Oggi, come al solito, mi occupo di tante cose insieme: eventi, comunicazione, organizzazione. La mente è sempre in un irriducibile movimento.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *