Buono come il pane…di giù
In più occasioni mi sono dichiarata una dipendente dai carboidrati. Quando si parla di pasta metto da parte la bilancia, sia per pesare lei prima di cucinarla che per pesare me dopo averla mangiata. Sono una buona forchetta ma anche con il coltello mi difendo, e se mi capita a tiro quel pane fragrante, caldo, croccante, con il sesamo sopra, è la fine. Così, au naturel o con un filo d’olio appena franto, e la buona azione verso le mie papille gustative l’ho compiuta. Niente è buono come il pane, soprattutto se è quello di giù.
Sì perché quando si tratta di panificazione l’Italia si spacca, come una michetta del giorno dopo: tanti piccoli pezzetti di Paese convinti di fare ciascuno il pane più buono.
Io non mi sento di contraddire nessuno. Mi lascio sedurre da una michetta con la mortadella e dal pane di Altamura con la burrata allo stesso modo, mi inchino davanti al pane nero di Castelvetrano ma cedo anche al cospetto di quello toscano, senza sale? Va bene, lo mangerò con la finocchiona e risolviamo il problema. Che non si dica che io non vedo il buono ovunque, eh.
Talento che invece, devo riconoscere, scarseggia tra i miei conterranei. “Il pane di giù non ha paragoni”. Gente che è andata via dalla Sicilia da anni, che vive a Roma, a Milano, a Torino da anni e preferisce tagliare il tonno con un grissino piuttosto che accettare la diversità e concedersi una fetta di pane del posto. Gente che, in sostanza, per fare la scarpetta deve prendere un aereo per la terra natia.
O forse no. Esiste un’alternativa per avere anche a Milano il pane siciliano. Quello fatto dal panettiere di fiducia, il panettiere che chiamiamo per nome e che ci chiama per nome. Quello che non ci fa nemmeno aprire bocca, sa già cosa vogliamo. Il solito mezzochilo ben cotto che appena entrati in macchina priviamo del “cozzo” (da noi l’estremità del filone) perché resistere a quel profumo e a quella fragranza è impossibile.
L’alternativa alla scarpetta fatta col pane in cassetta c’è ed è riempire la valigia prima e il congelatore dopo di chili di pane siciliano. Comincia così un traffico di pane siculo che un tale quantitativo di farina manco Pablo Escobar all’acme della sua carriera.
Dentro la valigia dei miei corregionali niente mutande: c’è spazio solo per filoncini e mafalde tutte tempestate di giuggiulena. Scorte impossibili da consumare in un arco di tempo breve e quindi bisogna far posto dentro il freezer. Mangeranno per giorni minestrone surgelato e sofficini ma si saranno assicurati una riserva di carboidrati ben fatti almeno fino al prossimo carico.
Io ho esportato di tutto in questi anni, di tutto. Perfino le lenticchie già cotte da mia madre dentro un recipiente ermetico. Ermetico nel senso poetico del termine, perché in verità non era stato capace di trattenere i legumi al suo interno durante il viaggio. Ho trafficato ogni tipo di specialità gastronomica ma mai il pane.
E’ una questione di spirito di adattamento e di apertura mentale.
Io ad esempio all’Esselunga trovo sempre quello che mi piace. Va sotto il nome di “pane siciliano”.
Oh, è un caso, sia chiaro.
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