Meglio rider che lavorare per la cosiddetta visibilità

Meglio rider che lavorare per la cosiddetta visibilità

“Quasi quasi, mi metto a lavorare come rider…”

Ametto di averci pensato almeno un paio di volte in questo ultimo anno. Poi è iniziato l’inverno e c’ho ripensato, ma non è di questo che voglio parlare.

Non voglio parlare neanche della tragica notizia di metà gennaio, quella da cui abbiamo appreso della prematura morte di uno straordinario musicista colto da infarto mentre consegnava la cena ad un cliente. Suonava da Dio, aveva 41 anni e faceva il rider per sopravvivere al lockdown. No, non parlerò di questo, ma in qualche modo anche questa storia fa parte di quello che voglio dire.

Pur di fare il lavoro dei sogni si accetta di tutto

Voglio parlare di un aspetto che alla fine c’entra poco con il periodo che stiamo vivendo. Si tratta, infatti, di una dinamica lavorativa che c’è sempre stata soprattutto nel settore artistico culturale. Sto parlando di quella sorta di velo di finzione che abbraccia il magico mondo del lavoro artistico culturale. Quel tacito accordo per cui risulta normale e giusto fare stage non retribuiti di un anno, essere pagati a distanza di mesi dallo svolgimento del lavoro, lavorare gratis per un progetto senza budget, ma con tanta (presunta) visibilità, ecc… Ecco, tutto questo costituisce la dinamica di cui parlavo sopra, una dinamica che alla fine, ad esempio, porta le persone a dire: “Sai che c’è? Piuttosto, meglio lavorare come rider”.

I lavori meno sognati richiedono meno compromessi

Tutto questo non accade nell’altro mondo del lavoro, quello “vero”, quello con cui le persone crescono i figli, mantengono le famiglie e fanno le ferie all’estero. Non s’è mai sentito di un operaio di un’azienda che viene pagato in visibilità o un commesso che deve fare uno stage di sei mesi non retributo e poi, forse, vediamo, se va bene, ti assumono a progetto o ti fanno aprire la partita iva. Non credo che a un impiegato del catasto gli si impongano orari di lavoro diversi da quelli stabiliti dal suo contratto e lo si intimidisca dicendo che “o così o quella è la porta”. Ecco, nel magico mondo del lavoro artistico culturale accade anche questo.

Ma allora si può ancora parlare di lavoro dei sogni?

Spettacolo, musica, teatro, cinema, tv, giornalismo, editoria, danza, canto, e ballo. Li ho detti tutti, credo. Sono questi gli ambiti in cui molta gente sogna di lavorare e per questo evidentemente, quella gente, è portata a fare qualunque cosa pur di realizzare il proprio lavoro ideale, anche chiudere gli occhi di fronte al fatto che quel sogno, di fatto, non esiste più perche è stato sporcato, umiliato e frantumato a suon di logiche di sfruttamento e servilismo che si alternano in una competizione tra sognatori che si eliminano a vicenda.

Certo, a volte qualcuno riesce a tirarsi fuori da queste logiche e a realizzare il proprio sogno, ma stiamo parlando di predestinati che meritano di rimanere nella storia per le loro abilità o di raccomandati.

Mediamente, le persone che scelgono di intraprendere l’impervia strada dorata del lavoro “fico” incorrono più o meno tutte nei medesimi problemi. Uno su tutti lo stipendio a fine mese: a volte non c’è proprio o è troppo magro per il caro vita su cui la società si è livellata.

Esempio pratico di come realizzare un sogno oggi in Italia.

Faccio un esempio pratico, anche se non ce ne sarebe bisogno. Un giovane aspirante giornalista che si trasferisce a Roma o Milano per realizzare il suo sogno, si trova ad affrontare una spesa di almeno mille euro al mese per vivere, tra affitto di una stanza in condivisione, utenze, cibo, trasporti ecc… Mettiamo il caso che sia fortunato e riesca a trovare un impiego come free lance. Il suo guadagno, visto quanto vengono pagati gli articoli oggigiorno, non gli basterebbe per coprire le spese. Di conseguenza, sarebbe costretto a cercarsi un altro lavoro, meno fico, ma più remunerativo. In questo modo però sottrarrebbe tempo alla sua attività di giornalista rischiando di scrivere tanto per riempire colonne di giornale senza concentrarsi troppo sul contenuto e contribuendo così ad abbassare il livello del suo stesso settore. Il tutto sotto la pressione costante della competizione con chi, magari supportato da una famiglia facoltosa, non ha problemi di affitto e bollette e può concentrarsi meglio su quello stesso lavoro tanto ambito, accettando senza problemi il fatto che comunque venga sottopagato.

Alla fine c’è chi dice: “Meglio lavorare come rider”

Mentre riflettevo su tutte queste dinamiche e sulla precarietà del lavoro nell’ambito artistico culturale, resa ancor più instabile dall’avvento della pandemia, mi sono imbattuta nel post di uno scrittore, Diego “Diegozilla” Cajelli. Un giornalista, autore, fumettista. Un operatore culturale a tutto tondo, insomma, che spiegava perchè ad oggi fa il rider.

Diego Cajelli – dalla sua pagina Facebook

Il testo di Diegozilla mi ha molto colpita perchè arriva dritto al punto, ti mette di fronte a una verità che forse non siamo così abituati ad ascoltare. La narrazione che viene fatta del problema che ho cercato di esporre in questo mio diario di oggi è solitamente molto più camuffata. Invece lui l’ha resta schietta, come deve essere, e così facendo gli ha restituito dignità. Ecco perchè faccio chiudere alle sue parole la pagina di oggi:

“Faccio il rider perchè un conto è reinventarsi partendo comunque da 100, ma se parti da 0 non ti puoi reinventare, ti devi adattare. Non faccio il rider “in amicizia” o perchè: “intanto facciamolo poi vediamo come va”, o per la visibilità, o perchè è un investimento, o perchè: “se va bene poi arrivano i soldi”, non lo faccio perchè c’è una realtà da tirare su, non lo faccio perchè: “proviamoci”, o perchè: “a tempo perso, eh! Tanto che ti costa”, non lo faccio perchè: “speriamo che questa sia la volta buona”. Faccio il rider perchè mi pagano, poco, ma mi pagano sempre”.


Qui le altre pagine del mio Diario Semiserio

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Martina Vassallo

Una passione, quella per la Comunicazione, e tanti strumenti diversi per attuarla. Dal giornalismo alla fotografia, passando per uffici stampa, videomaking e scrittura. Dopo la Laurea, la tessera da Pubblicista e gli anni da cronista, ho girato cortometraggi, spot e documentari. Per non farmi mancare niente, ho anche aperto un'attività nel wedding. In questo blog uso le mie esperienze per parlare di vita, sentimenti e ricerca interiore. Riflessiva, sì. Ma sempre con un pizzico di allegria, perchè per affrontare le profondità è meglio viaggiare leggeri.

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