Caso Boralevi e la storia del rider che guadagna troppo.
Questa settimana sui social, ormai consuete ed abituali finestre sul mondo, è scoppiato il caso “Boralevi e la storia del rider che guadagna troppo”.
Il rider descritto dalla Boralevi è quello che a causa della crisi è costretto a chiudere il proprio studio da commercialista per cominciare a percorrere 100 km al giorno, consegnando pranzi e cene.
All’indignazione degli utenti segue la smentita del giornale.
Il caso ci permette di parlare della professione del giornalista e di quella del comunicatore…
…e poi dei precari, in particolare dei riders, di cui si discute da mesi nel nostro paese…
Contestato alla nota firma, non sono solo le informazioni oggettivamente false, ma soprattutto il tono entusiastico dell’articolo.
La giornalista, infatti dice che fare il rider è bello perché ti mantieni in forma e ti fa guadagnare più soldi di un manager.
La testata si è scusata dicendo che quella della giornalista è una “opinione”, ma che la pubblicazione della stessa, proprio per l’autorevolezza del “giornale”, non può modificare la realtà.
Sarebbe bello se le testate nazionali, oggettivamente più seguite, avessero solo giornalisti per i quali la verifica della fonte fosse un dogma e si astenessero dalla gara dei click, in favore della verità.
Questo restituirebbe credibilità agli stessi giornali, come anche tenere sempre presente che c’è terreno fertile per la divulgazione veloce delle false notizie.
Credo si possa trovare una morale a questa “favola” moderna.
Al netto del fatto se sia vera o no la storia, in Italia c’è la necessità di accrescere la cultura del lavoro.
Oltre a dire che il nostro è un Paese fondato sul lavoro, dovremmo dimostrare che tutte le professioni possano considerarsi dignitose.
Soprattutto se, come oggi succede a tanti , non si riesce a fare quella relativa al percorso di studi universitari svolti, trovando successo su altre strade… così come quelle percorse con una bicicletta.
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