Sempre a testa alta
Insicura, incapace, inadeguata, colpevole. Sentirsi tutti gli occhi addosso, avvertire disgusto sulla pelle e non essere più in grado di lasciarsi andare. Paure e incubi a occhi aperti. Così avverte il proprio esistere una donna, dopo essere stata vittima di violenza. A chi non le vive in prima persona certe situazioni e sensazioni appaiono lontane, irreali. Eppure innumerevoli donne ci devono convivere, affrontando la società e sfidando se stesse. In un modo o nell’altro, molte riescono a raccogliere i pezzi che sono rimasti dopo i soprusi subiti. Una volta sprofondate nel burrone, imparano a rialzarsi e andare avanti. Sempre a testa alta.
Ogni giorno donne e ragazze di tutte le età, vengono stuprate e subiscono violenza. Spesso da persone di cui si fidano ciecamente e dentro le mura di casa. E denunciare non è certo facile.
“Un pomeriggio mi invita ad andare a casa sua. Mi dice di mettermi la gonna. Quando arrivo mi fa sentire un po’ di musica. Stiamo seduti sul letto perché mancano le sedie. Quando mi bacia mi sembra tutto incredibile, è il mio primo vero bacio. Mi fa stendere e si stende sopra di me. Sono agitata, ma penso che sia normale. Mi tira su la gonna e mi scosta gli slip. Io mi divincolo e gli chiedo di smetterla ma lui continua a ficcarmi la lingua in gola. Non riesco quasi più a parlare. Prende fiato un istante, faccio in tempo a implorargli: basta! Mi stava facendo male. Lui ribatte che è normale, è la prima volta, sta facendo piano, sarà delicato. Cerco ancora vanamente di liberarmi. Lui mi tiene stretta. E’ forte e pesante. Piango, sono disperata. A lui però non interessa. Fino a che non ha finito.”
Secondo il rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, la violenza contro le donne rappresenta un problema di salute di proporzioni globali enormi. L’abuso fisico e sessuale è una complicazione sanitaria che colpisce oltre il 35% delle donne in tutto il mondo. L’Italia in questi ultimi anni ha dovuto rincorrere sul piano legislativo la triste realtà dei tantissimi casi di cronaca.
Fino al 1996 la violenza contro le donne era collocata fra i delitti contro la moralità pubblica ed il buon costume. Dopo quella data ha iniziato a essere considerata invece come un delitto contro la libertà personale. Nel 2001 sono state introdotte nuove misure per contrastare i casi di aggressione all’interno delle mura domestiche, con l’allontanamento del familiare violento. E sono state approvate le leggi sul patrocinio a spese dello Stato per le donne senza mezzi economici, violentate e maltrattate.
Il Legislatore ha dovuto mettere mano più volte alla materia. Nel 2009 sono state inasprite le pene per la violenza sessuale ed è stato introdotto il reato di atti persecutori ovvero lo stalking. Nel 2013 è stata approvata la ratifica della Convenzione di Istanbul, redatta l’11 maggio 2011, le cui linee guida tracciano la strada per emanare provvedimenti efficaci a livello nazionale. Il 15 ottobre 2013 è stata approvata la legge che reca disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere. Nel 2019 la legge n. 69 ha rafforzato le tutele processuali delle vittime di reati violenti, con particolare riferimento ai reati di violenza sessuale e domestica.
La legislazione cerca di andare veloce e porre rimedio, ma sopravvive ancora il retaggio di una cultura sbagliata. Sussistono ad oggi i segni di quella mentalità che attribuisce alle donne la colpa. Per aver sorriso, per essersi vestite in un certo modo, per aver risposto o essersi opposte.
Non esiste alcun comportamento al mondo che possa giustificare una violenza, uno stupro o un abuso sessuale. Questo devono comprenderlo tutti e le donne prima degli altri.
“Quando mi lascia andare sono talmente scossa che non mi reggo nemmeno in piedi, non faccio che singhiozzare. Mi dice di non farla tanto lunga, che se non volevo non andavo da lui per giunta con la gonna. Non so per quanto ho camminato, ricordo di essere rincasata solo dopo ore e che un tempo altrettanto interminabile l’ho trascorso sotto la doccia. Quando ho chiuso l’acqua avevo la febbre a 40. Mi è rimasta per giorni, ed è stata forse la mia salvezza perché ho potuto così restarmene a letto fingendo di dormire. Non doveva saperlo nessuno. Mi torturava l’idea che potesse essere stata colpa mia, perché ero andata a casa sua con la gonna.”
Le donne devono smaltire decenni di sensi di colpa e comprendere anche che è necessario chiedere aiuto.
Eleonora Iacobelli.
Psicoterapeuta.
Presidente Eurodap.
Responsabile BioEquilibrium
Per prima cosa bisogna distinguere tra la violenza compiuta da estranei e quella perpetrata da conoscenti e familiari. Le conseguenze fisiche maggiori sono quelle delle aggressioni da estranei perché le vittime sono portate naturalmente a difendersi. E sono pure i crimini che si riescono a denunciare con più facilità, se possiamo dire così. Gli altri invece, quelli che si generano a casa, sul posto di lavoro o nella cerchia di amici, sono più difficili da esternare, a causa del senso di vergogna che ne deriva e perché la donna si colpevolizza ancora di più.
Quando una donna riesce a raccontare cosa le è accaduto non viene creduta, le viene detto che esagera. Si ritrae in se stessa e nel suo mutismo. La violenza rimane sommersa dall’omertà e da una sbagliata tradizione educativa. Da un punto di vista psicologico le problematiche che si scatenano sono svariate. Vanno dal disturbo compulsivo del controllo alle difficoltà relazionali e nei rapporti sessuali. Fino a giungere a crisi ansiose e agorafobia, perché il luogo aperto significa pericolo. In casi più gravi si arriva a depressioni, uso e abuso di alcol e droghe, come rimedi di automedicazione per anestetizzare la realtà.
E poi ci sono donne che presentano un quadro clinico più grave, che rientra nel disturbo post-traumatico da stress. Chi è in questo tunnel soffre di insonnia, rabbia e flashback. Non riesce a verbalizzare ciò che le è accaduto, non riesce a contestualizzare. La terapia più indicata e veloce per la risoluzione di questi casi, l’O.M.S. la identifica nell’E.M.D.R. un metodo psicoterapeutico che si focalizza sul ricordo dell’esperienza traumatica. Utilizzando i movimenti oculari, o altre forme di stimolazione bilaterale del cervello, si riesce a riprocessare in maniera funzionale ricordi non elaborati oppure non sviluppati correttamente. Permettendo di arrivare a verbalizzare il trauma, in modo corretto.
Se il primo passo è riconoscere di aver subito un qualcosa di ingiusto e parlarne, fondamentale è il supporto della rete sociale, della famiglia, degli amici e dell’ambiante di lavoro. Quel tessuto di relazioni che può aiutare la donna vittima di abusi a non sentirsi insicura e colpevole. E può favorirla nell’autostima e nella percezione corretta delle proprie capacità. E’ un lavoro difficile e lungo che va affrontato giorno dopo giorno, con l’aiuto di specialisti. Da sole le donne non riescono a uscirne. Non per incapacità ma perché semplicemente non si può. Sarebbe come mettere la polvere sotto il tappeto, spostarla senza toglierla veramente. Le donne sono forti e quando riescono a contestualizzare quello che è loro accaduto, ce la fanno a reagire.
Se la violenza è accaduta in famiglia il quadro che si presenta è più compromesso, perché si vive in un circolo in cui il carnefice puntualmente si scusa e porta regali. La donna allora perdona e inizia la fase della luna di miele. Dopo però ricomincia tutto da capo e con il tempo l’idilio dura sempre meno. Il circolo diventa sempre più veloce e pericoloso.
Sciaguratamente sopravvive una tendenza culturale che colpevolizza la donna anche per il semplice modo di vestirsi. E se la violenza accade in famiglia il senso di colpa cresce a dismisura e si tende a rimuovere l’accaduto.
E’ un meccanismo psicologico di auto-protezione perché prendere atto di ciò che accade con le persone a cui ci si affida è traumatico. Quindi non si elabora l’informazione giusta. C’è da aggiungere che il carnefice ha potuto operare indisturbato forse per anni sulla psiche della vittima, inculcando l’idea che la donna non valga nulla e che senza di lui non possa andare da nessuna parte. Una vera violenza psicologica.
Quando una donna racconta abusi subiti, di qualunque natura essi siano, la prima cosa da fare è crederle. Al principio va presa per buona qualsiasi informazione. Chi aiuta deve stare attento a non essere invadente, lasciando spazio e tempo, perché non ci si può sostituire alla vittima. Sono più le ragazze rispetto alle donne mature a denunciare. Ed è naturale, è una questione generazionale. Chi ha una certa età appartiene a un tempo in cui è stato insegnata la sopportazione, per ogni circostanza. Le nuove generazioni f’altro canto hanno meno tabù e vivono in una parvenza di parità che rende relativamente più semplice la denuncia.
Ci tengo a dire alle donne di non aver paura, di chiedere aiuto. Non sono loro ad avere colpe.
Voglio dire loro di ribellarsi!
“Mentre scrivevo un messaggio sul telefono, ho visto un’ombra nera allungarsi sempre di più. Mi sono fermata per capire cosa fosse ma quando l’ho vista correre verso di me era già troppo tardi. Ho provato a strillare ma l’urlo è tornato in gola rimbalzando sulla mano pigiata sulla bocca. L’uomo mi ha colpita e trascinata via, fino a chiudermi in una baracca maleodorante. Non era solo, quel bastardo. Erano due belve feroci, che mi hanno fatto sdraiare su un materasso putrido e lacero, bloccandomi le gambe. Ho chiuso gli occhi e pregato. Mentre mi sentivo strappare via la pelle, violare nell’intimità, in balia del mostro, privata della mia libertà, carne da macello. Come se la mia vita non avesse valore. Piangevo e tremavo mentre quei maiali si divertivano a turno. Fatico a considerarli umani. Perversi, infami, vigliacchi, questo sono”
Sabrina Frasca.
Referente di Differenza Donna. Esperta di genere.
Differenza Donna nasce nel 1989 per prevenire e superare la violenza di genere, sensibilizzare ed informare sul tema. Prima in ambito romano, adesso anche sul territorio nazionale.
Per una vittima rivolgersi a un centro come il nostro è difficile, le donne si sentono responsabili per ciò che è accaduto. Si rende necessario prima di tutto affrontare un percorso per far comprendere loro di non essere responsabili. Siamo in una società culturalmente non pronta e non adeguata perché i servizi che dovrebbero occuparsi di chi è vittima di violenza non sono preparati e in grado di aiutare nel modo giusto. C’è tutt’oggi una sottovalutazione del problema.
La discriminazione, l’emarginazione e la sopraffazione nei confronti delle donne sono un fenomeno sociale diffuso, grave e complesso, che solo competenze specifiche possono combattere con efficacia. I Centri antiviolenza di Differenza Donna sono lo strumento prioritario di cui l’Associazione si avvale per prevenire e contrastare la violenza di genere.
Noi gestiamo anche il 1522, il numero antiviolenza nazionale. Da lì possiamo capire molto. Chiamano in tante. Quelle che poi però proseguono realmente il cammino di denuncia sono una bassissima percentuale.
Per capovolgere la situazione prima di tutto bisognerebbe rendere le donne libere. Attraverso la formazione e il lavoro. Oppure per mezzo di un accesso abitativo favorevole che le affranchi dalla situazione disagiata che vivono. La ragione è evidente: se la violenza avviene in casa ha poco senso dire alla vittima di denunciare, se poi da quella stessa casa non si può scappare effettivamente.
Occorre mettere in atto insomma una serie di provvedimenti pratici che aiuti le vittime a riappropriarsi della propria vita
E’ necessario un intervento sistemico di cambiamento culturale. Medici, Forze dell’ordine, insegnanti. Tutti devono essere coinvolti per arrivare a quelli scatto di mentalità. Quando ci sono situazioni di violenza, la risposta di chi ascolta deve essere quella di persone competenti e preparate a recepire. E infine le Istituzioni, attraverso un intervento strutturale, sono chiamate ad agire. Con un programma adatto anche nelle scuole, far in modo che si faccia cultura.
Esiste un clima ostile nei confronti delle donne, ce ne accorgiamo giornalmente. E’ cronaca attuale il caso del cimitero Flaminio di Roma, dove una distesa di croci indica la sepoltura dei feti, frutto di aborti previsti per ragioni sanitarie. A ogni croce è legato un nome e cognome femminile, ma il sesso del feto non c’entra nulla. Sono le generalità delle madri che devono affrontare in questo modo l’ennesimo strazio, dopo l’esperienza dolorosa dell’aborto.
Si continua a colpevolizzare le donne, anche di un aborto terapeutico che non è dipeso dalla loro volontà. Una prepotenza e una cattiveria che insistono sull’essere femminile in quanto tale, con un intento persecutorio.
Quello che si può e si deve fare oggi è dare credito alle storie delle donne che confessano il sopruso di cui sono state vittime. Il problema principale è proprio il non essere credute. Se ci viene raccontato di uno schiaffo ricevuto, vuol dire che quell’atto è arrivato in molti casi dopo anni in cui la donna ha subito. Probabilmente ha pure provato a raccontare quello che le accadeva, ricevendo risposte non adeguate.
Alle donne va data la possibilità di ribellarsi. L’esperienza infatti ci dimostra che dopo la denuncia queste donne rinascono, se ben sostenute nel percorso e se le risposte giudiziarie sono positive. Riprendono in mano la loro vita e cambiano, anche fisicamente. Ovviamente le cose si complicano se al contrario i percorsi si allungano oppure se la donna è costretta a continuare a vedere il proprio carnefice, per rendere possibili le visite ai figli, ad esempio. Le vittime allora si sentono sotto ricatto continuo e vivono costantemente nella paura.
La migliore prevenzione è insegnare la libertà alle giovani donne. E’ un tassello che può aiutare a riconoscere realtà sbagliate e portare il coraggio necesario per chiedere aiuto prima che sia troppo tardi.
Fino a quando non accade a te, tu non sai Come ci si sente. Non lo sai.
Non sarà reale
Mi dici di tenere alta la testa
Tenere alta la testa ed essere forte
Prima di cadere devi alzarti
Devi alzarti e andare avanti
Dai dati Istat risulta che in Italia stanno aumentando leggermente le condanne, ma la violenza sulle donne è stabile e ancora molto diffusa. La percentuale di chi denuncia è bassa e solo per la metà degli iscritti in procura si avvia un’azione penale.
Paolo Arcivieri.
Fondatore di Nati per Lottare onlus.
A gennaio 2004 nasce l’ Associazione Nati per Lottare Onlus – Contro la pedofilia e la violenza sulle donne. Ideatore del progetto è Paolo Arcivieri.
Nati per Lottare nasce in piena partecipazione sociale e politica e sotto l’input di Mino D’Amato, anche lui molto attivo socialmente. Iniziano così le nostre tante battaglie. Dall’impegno sanitario a quello economico, dalle scuole alla strada, siamo stati sempre in trincea e in movimento continuo.
Tra i vari progetti, siamo riusciti a consegnare 20 tablet per la didattica a distanza durante il lockdown e a settembre abbiamo sposato l’iniziativa “Panchina Rossa” per fare rete sociale e comunicazione sul tema della violenza sulle donne.
Nel 2014 l’artista Karim Cherif in collaborazione con l’associazione Acmos e la circoscrizione n°6 di Torino, il cui intento era promuovere una campagna a livello territoriale contro la violenza sulle donne, ha dipinto la prima panchina di rosso con due grandi occhi, di donna, specchio dell’anima. Dopo l’esperienza di Torino l’iniziativa ha preso piede anche in molti altri comuni.
La panchina è un simbolo architettonico portatore di significato. E’ un rimprovero e un insegnamento, visibile e permanente per i cittadini. Un piccolo spunto da cui può fiorire cultura e in grado di scatenare l’aprirsi delle coscienza.
Mi duole dire che sul tema della violenza sulle donne c’è ancora troppo da fare. Non siamo per fortuna in un sistema arcaico ma ancora non siamo dove si dovrebbe essere. Sia sul piano legislativo perché le pene al momento non sono abbastanza severe e nemmeno sul piano della comunicazione. Il problema è nella società in cui viviamo che finora ha relegato l’essere femminile in una dimensione molto indietro nel tempo. E la difficoltà è allo stesso modo negli uomini, che considerano la donna non un essere umano ma semplicemente un oggetto.
Leggi pesanti potrebbero piegare le menti più abbiette, la diffusione comunicativa potrebbe aprire alla cultura e quindi abbattere quel retaggio sociale che ancora consente di credere che la donna sia una proprietà di cui poter disporre a piacimento.
Ben vengano iniziative come quelle della Panchina. Se questo porta attenzione su una condizione femminile non ancora libera. Mi auguro che si arrivi presto a una maggiore sensibilizzazione e a una fase di più grande impegno. E’ difficile da attuare però è doveroso, considerando che nel 2020, a 360 gradi la donna soffre come nessun essere al mondo, in ogni aspetto della realtà. E ciò che prova nel proprio intimo può comprenderlo solo lei. La frustrazione, la rabbia, la paura.
La battaglia contro violenze e stupri spetta a tutti noi, non ha colore politico ma solo coscienza umana.
Esiste una bellissima leggenda che narra di un Filo Rosso del destino. Ogni persona fin dalla nascita porta legato al mignolo della mano un filo che lo collega alla propria anima gemella, che lega le due persone, per farle incontrare e unire per sempre. Ecco sarebbe bello se potesse nascere un’altra leggenda, quella della Panchina Rossa capace di legare la cultura della libertà a ogni donna, per far in modo che il per sempre sia una civiltà senza violenza di genere. E che il colore rosso simboleggi la vita e la rinascita e non il dolore e il sangue.