Si fa alla romana ma io sono siciliana
Cosa vuol dire “si fa alla romana”? Da dove viene questa espressione? Perché i romani non si sono fermati all’invenzione della cacio e pepe e hanno voluto strafare divulgando questa modalità di divisione del conto così volgare e abusata?
Io ho googlato per sapere che storia c’è dietro. Non c’è nessuna storia. Non si sa, non lo sa manco l’Accademia della Crusca da dove nasce questa locuzione. Non lo sa nessuno ma lo facciamo tutti, paghiamo alla romana.
Lo facciamo quando io al ristorante prendo un’insalata scondita e tu un Plateau Royale. Quando io bevo tre Barolo Riserva Docg e tu sei astemio. Lo facciamo quando mi inviti al tuo compleanno, scegli tu il locale, scegli tu il menù, io scelgo solo il regalo da farti e se pagare con carta o contanti la mia parte del conto alla fine della festa. A questo io non ero abituata perciò il primo compleanno a Milano è stato un trauma. Vengo da un posto in cui se ti invito, tu sei mio ospite. Ti pago la cena, ti pago da bere, ti pago l’after, ti pago anche il taxi per tornare a casa. Anzi, guarda, dimmi quanto hai speso per il mio regalo che ti ripago pure quello. Qui tutta un’altra storia e assisto sgomenta alla fiera dichiarazione del festeggiato: “Ragazzi, però le cose da bere le pago io, ci tengo”. Scelta questa che comporta l’ingaggio di un ragioniere che deve prendere il totale sottrarre le bevande dividere il risultato per il numero di commensali e poi sommare a questo la quota del beveraggio per avere finalmente la cifra esatta che pagherà il festeggiato. Voi siete pazzi.
Ma non meno imbarazzante è la situazione in coppia. Per me non esistono regole, esistono solo il buon senso, la buona educazione e l’equilibrio. Non deve pagare sempre lui. Non devo pagare sempre io. Non si può sempre fare alla romana. Il ventaglio di occasioni di disagio che ho dovuto affrontare in tal senso è molto ampio e variegato e, ahimè, difficile da dimenticare. Ad esempio non posso scordare M. Lui nei primi tempi di frequentazione camminava con il portafoglio in mano. Pagava tutto lui, non me ne accorgevo nemmeno. Diverbi davanti alla cassa dei locali perché mi opponevo a questa forma di maschilismo becero rivendicando emancipazione e parificazione. Lottavo ignara che da lì a poco le cose sarebbero precipitate. A un certo punto infatti M. inizia a uscire senza portafoglio. Bene, penso che finalmente posso sdebitarmi, ne sono felice. Comincio a preoccuparmi quando, trascorse così le settimane, mi chiede se posso comprargli le patatine o il panino o il gelato. Insomma non ho più un ragazzo accanto ma un figlio. Mi persuado che è meglio chiuderla qui, l’incesto non me lo sarei perdonato.
Davanti alla cassa come nella vita quello che conta è il gesto. Se tu non fingi neanche di prenderlo il portafoglio è un problema. Stai dando per scontato che debba farlo io e, a meno che tu non sia davvero mio figlio quinquenne che non ha ancora un’indipendenza economica, non te la puoi permettere questa libertà. Devi almeno far finta di tirarlo fuori il portafoglio, e solo per questo gesto ti sarai meritato la cena.
Io credo che lì, al momento del conto come a tavola si capisca molto delle persone. Certo non interrompo relazioni perché l’altro con lo scontrino in mano si trasforma in un T-Rex, ma almeno so bene con chi ho a che fare.
Forse, però, questa attenzione nonché ansia del comportamento dell’altro quando si paga viene da lontano. Uno bravo direbbe così. Mia madre, quando ero bambina e combinavo qualche monelleria fuori dalle mura domestiche, mi ammoniva: “Poi a casa facciamo i conti”. Espressione che mi inquietava molto. E lì sì che avrei voluto dire ai miei fratelli: “Vabbè, ragazzi, si fa alla romana?”.