Nei cieli di cobalto

Nei cieli di cobalto

Non è il sangue a determinare il legame tra due persone e non è un codice genetico in comune a far nascere affetto. Diventare mamma e papà non è la conseguenza di un momento ma è la scelta consapevole e un farsi presenza. Lì dove procreare non vuol dire necessariamente diventare genitori, è adottare che significa farsi portatori di un bene supremo e profondo. L’adozione è composta da tante piccole storie, che a volte si intrecciano e a volte divergono. Testimonianze di emozioni e sentimenti puri. Racconti scritti lassù, nei cieli di cobalto. Un desiderio che nasce direttamente nel cuore, donare vita a chi è stato generato da altri. Un regalo per se stessi e per l’umanità intera.

Fac ramum ramus adoptet

(fa’ che un ramo ne adotti un altro)

Ovidio

Un bambino che viene adottato ha vissuto uno dei traumi più importanti che si possa sperimentare: l’abbandono. La perdita può essere avvenuta quando era neonato oppure quando era più grande, lui comunque percepisce tutta la fatica che ha accompagnato la sua nascita. Ogni situazione è diversa e spetta al genitore adottivo il compito gravoso di rivelare la verità, con i tempi giusti e le parole adatte. E’ una confessione necessaria che permetterà a suo figlio di sistemare i pezzi mancanti e di trovare il significato di quanto gli è accaduto. Una rivelazione fondamentale per consentire di poter ricucire le ferite, più o meno sopite.

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Nei cieli di cobalto

Marco

è stato adottato, quando era molto piccolo. Ha viaggiato dal Libano per arrivare in Italia, dove lo aspettavano Maria e Mimmo.

Conosco varie situazioni in cui si raccontano storie di sofferenza. Ecco, la mia non è così. Non ricordo il momento esatto in cui ho scoperto di essere stato adottato. I miei genitori non mi hanno mai nascosto nulla e dunque l’ho sempre saputo. Per questo forse per me non è mai stato un problema. Non ho mai ricercato il mio passato, però i miei genitori mi hanno sempre spinto a studiare e conoscere le miei radici, anche andando sul posto. Così ho fatto e sono partito molte volte per il Libano. Il mio primo viaggio da solo l’ho affrontato nel 1995, all’età di dodici anni.

Marco ha una connessione intensa con la sua Terra d’origine. In lui non c’è mai stata l’indagine spasmodica della verità della sua nascita, ha invece ricercato cosa del Libano c’era in lui.

Consultando i vari documenti ho saputo che i miei genitori biologici potrebbero essere morti, sono venuto a conoscenza di quelli che sarebbero i loro nomi. Però è tutto un forse. Perché gli eventi libanesi degli ultimi decenni non rendono né semplici né certe le informazioni. Comunque cambia poco. Negli ultimi anni è cresciuta in me la voglia di studiare e comprendere davvero il Libano e la sua gente, così ho incontrato e conosciuto persone con cui mi sento giornalmente. Avverto molto il legame con la mia Terra natale, tanto che lunedì scorso sono andato in ambasciata per fare il passaporto libanese a mia figlia che è nata da poco. L’ho chiamata Aidha, che vuol dire regalo. Mi auguro che lei un giorno possa scoprire la bellezza della mia patria e comprendere le radici profonde che abbiamo lì.

Marco non ha paura di fare il papà, ha detto che gli basterà seguire l’esempio che gli hanno dato i suoi genitori. Un rapporto intimo e immenso il loro.

Oggi non saprei immaginare una vita diversa da quella che ho. E’ vero che ho voglia di comprare una casa in Libano e trascorrerci le estati, insieme alla mia famiglia. Però se non avessi ricevuto in regalo i miei genitori e se fossi rimasto lì oggi probabilmente non potrei raccontare nulla e chissà forse sarei morto anni fa. A Roma c’è la mia famiglia, i miei amici e le persone importanti. In Libano c’è la vita che non ho mai vissuto. Sono legato alla mia Terra e a Beirut, ma rimane impagabile quello che ho in Italia per merito di chi mi ha voluto fortemente e che mi vuole un bene immenso così come io ne voglio a loro. I miei genitori.

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Del Libano apprezzo il cibo, mi conquistano le persone e sono affascinato dai tramonti, che sono i più belli che io abbia mai visto. Non mi piacciono però la polita e la corruzione, che è una piaga atavica. Detesto quello che il Libano ha subito e che ha lasciato accadesse. Vorrei che i libanesi avessero più senso di appartenenza, anche se va sottolineato che qualcosa adesso sembra svegliarsi.

Il racconto di Marco si snoda tra presente, passato e futuro. Tra Italia e Libano, tra riconoscenza e affetto.

Un genitore adottivo compie il più smisurato e importante passo. Per arrivare infatti a quel momento finale, in cui stringerà tra le braccia suo figlio, dovrà sottoporsi a una serie di esami, personali, economici e fisici. Intraprende una strada a volte molto lunga e faticosa. Se decide di iniziare e proseguire un cammino di questo tipo vuol dire che il desiderio che ha è molto forte e solo questo può concedergli la tenacia e il coraggio necessari per non arrendersi.

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Sangue del mio sangue e carne della mia carne, le sentiamo spesso queste frasi. Però non sono né la carne né il sangue a determinare il destino dei figli, tantomeno possono quantificare e qualificare il bene di una mamma e di un papà che accudiscono, educano e accompagnano.

Simona

e Michele sono una coppia che ha scelto di adottare e come una Magia è arrivata la loro bambina. Il percorso adottivo è durato circa due anni. Tutto ha funzionato nel modo giusto, perché in Italia non esistono solo problemi ma anche soluzioni.

Insieme da dodici anni, Simona e suo marito non erano riusciti ad avere figli biologici e invece di insistere con terapie mediche, con calma e genuinità hanno rivolto il loro pensiero all’adozione. Con altrettanta serenità e curiosità hanno partecipato al loro primo corso per capire se quella fosse la strada giusta.

Nel 2018 hanno iniziato gli esami medici. Il giorno del quarantesimo compleanno di Simona hanno inviato la raccomandata che sanciva l’inizio di tutto l’iter. Era il primo tassello del puzzle miracoloso che stava per compiersi. Alla fine di maggio di quello stesso anno li contatta l’assistente sociale per un colloquio conoscitivo. Così racconta Simona quel momento:

Ero in mezzo alla strada, con un orecchio al telefono e stravolta dall’emozione. Ascoltavo la voce dell’assistente che con una dolcezza incredibile mi diceva dove fosse l’appuntamento e a che ora.

Quando andammo al colloquio trovammo due splendide donne che ci chiesero, si informarono, ci massacrarono e ci distrussero. Però io lì compresi tutta la loro difficoltà. Si ritrovavano il peso e la responsabilità di dover decidere se le persone che avevano davanti sarebbero potuti essere dei bravi genitori per quei bambini speciali, che alle volte hanno già un duro passato con cui dover fare i conti.

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Passano i mesi da quell’incontro. Simona e suo marito proseguono con i colloqui di valutazione e con la loro vita. Non avevano fretta, in cuor loro c’era la consapevolezza che quella strada li stava portando da qualche parte.

Nel compilare il questionario, che viene dato ai potenziali genitori, loro non avevano segnalato preferenze d’età o di salute. Si erano aperti con semplicità all’accoglienza di una nuova vita.

Il loro puzzle stava per completarsi ma ancora non lo sapevano. Dopo aver visitato la loro casa, gli assistenti sociali a gennaio del 2019 redigono la relazione che viene consegnata al Tribunale. Un referto che emoziona non poco Simona e suo marito.

Alla lettura di quel documento abbiamo pianto dall’inizio alla fine, per quanto fosse bello. Ci rispecchiava. Eravamo noi.

Viene inoltrata richiesta sia per l’adozione nazionale che internazionale. Passa pochissimo tempo e i futuri genitori vengono convocati dal Giudice Onorario.

Era marzo quando entriamo in una stanza senza finestre, davanti a quest’uomo che ci guarda in modo severo e burbero e ci chiede del perché fossimo lì. Una situazione che sembrava stranissima ma che in realtà si trasformò in una conversazione importante e gradevole. Uscimmo da quel luogo con una sensazione molto positiva.

A inizio maggio Simona e Michele vengono ricontattati per l’adozione nazionale. Anche in quel momento affrontano tutto con relativa tranquillità. Tornano di nuovo in Tribunale, davanti a un Giudice donna e un’altra assistente sociale. Affrontano l’ennesima serie di domande. Gli interrogativi che vengono loro posti stavolta sono più mirati, hanno un fine preciso, ma loro non possono saperlo. Il tassello centrale del puzzle era già nato e li attendeva.

Il giorno dopo mio marito mi telefona: Amore vogliono vedere casa! E’ stato un’attimo infinito, in cui ho capito che stavo diventando genitore.

Una volta assolta la visita dell’abitazione, l’assistente sociale fissa l’appuntamento in Tribunale al mattino seguente.

Di quella mattina ricordo poco, ha ricostruito tutto nella memoria mio marito. Rammento solo di essere entrata nella stanza e che ci fu chiesto: Se dite di si…

Ovviamente la risposta fu affermativa! La nostra piccola aveva quaranta giorni e ci stava aspettando.

Il giorno del sì era giovedì. Il lunedì seguente si recarono all’ospedale e incontrano la loro cucciola.

Nella culla vediamo questa ranocchietta che con i suoi occhi grandi e apertissimi si gira verso di noi come se ci avesse riconosciuti.

Trascorrono altri tre giorni. I puzzle ora è completo. Simona e Michele portano la loro Magia a casa e diventano famiglia.

Il nostro è stato un percorso non lunghissimo, vissuto con serenità. In tutto il periodo non ci siamo mai sentiti soli perché i servizi sociali ci hanno aiutato in ogni modo e siamo sicuri che potremo sempre contare su di loro.

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La piccola adesso ha un anno e mezzo e cresce bene.

Essere madre non vuol dire partorire. Magia è la mia bambina e non  potrebbe essere che lei. E’ il mio sangue, mi scorre nelle vene.

La biologia è l’ultima cosa che rende qualcuno una madre.

Oprah Winfrey

Il romanziere francese Marcel Pagnol ha scritto che quando un bambino nasce pesa tre-quattro chili, però non saranno poi quelli a determinarne la storia. Mentre cresce infatti mette su quelli che Pagnol chiama i chili amore, donati dai genitori sociali. Sarà quel peso in più a dargli la possibilità di diventare adulto e di costruirsi un futuro.

Maddalena

e Michele hanno ripetuto il percorso dell’adozione per ben due volte. I loro due figli sono il frutto di una prima scelta, come la definisce Maddalena.

L’idea dell’adozione c’era in me sin da quando ero ragazza. Quando ho incontrato mio marito, ben trentaquattro anni fa, ho capito che poteva essere la persona giusta per me e parlando con lui della mia aspirazione, da subito mi diede una risposta positiva. Dopo dieci anni della nostra vita insieme abbiamo iniziato a pensare a un figlio. E ovviamente ad adottare. Non avevamo escluso la possibilità di un figlio biologico ma parallelamente all’idea dell’adozione in me avvenne un cambiamento fisico e ormonale. Per poter restare incinta avrei dovuto sottopormi a cure su cure, e la risposta a tutto questo fu un No secco. La nostra strada era già tracciata.

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Decidemmo per l’adozione internazionale e il desiderio era di avere insieme due bambini, fratelli anche. Ricevemmo l’idoneità dal Tribunale dei Minori e ci rivolgemmo a un’agenzia.

Riusciamo a produrre tutti i documenti necessari, scontrandoci anche con la burocrazia e l’ottusità.

Ogni passo ci conduceva verso l’Ucraina.

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Nel 2004 partiamo per Kiev, ma non ci era ancora stato comunicato nulla sull’assegnazione, sapevamo solo che dovevamo andare e fare i colloqui. Io avevo 38 anni, mio marito Stefano 41. Arrivati sul posto entriamo in un ufficio della Commissione per l’adozione. Una stanza piena di coppie, con varie scrivanie. Il funzionario che parla con noi ha penetranti occhi azzurri, che ancora ricordo benissimo, e ci dice che c’è un bambino di un anno e mezzo, non lontano da dove eravamo in quel momento, che lui desiderava fosse diventato nostro figlio. Non ci pensiamo un attimo e rispondiamo si!

Così partiamo per conoscere Eugenio, il nostro bambino.

Maddalena e Stefano viaggiano tutta la notte attraversando un pezzo d’Ucraina. In un’atmosfera irreale, fatta di ferrovie con passaggi a livello, dove ancora l’asta viene alzata o abbassata a mano, con gente che cammina in mezzo ai binari e casupole sperdute nella campagna. Il tutto guardato con incanto, il loro sentire era rivolto all’abbraccio che presto avrebbero dato a loro figlio.

Una volta giunti a destinazione trascorsero quindici giorni in un albergo per camionisti, in quello che era un distretto minerario. L’istituto in cui si trovava Eugenio ospitava circa settanta bambini dai 0 ai 5 anni, era tenuto bene, molto pulito, immerso in un giardino meraviglioso con tanti giochi, e con un bosco che si stagliava all’orizzonte.

I bambini potevano giocare fuori e le operatrici si ponevano verso di loro sempre in modo molto carino. I piccoli erano tutti in carne e paffutelli, segno che non mancava loro il cibo.

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Entriamo nell’ufficio della Direttrice e finalmente conosciamo lui, nostro figlio. Fu un’emozione fortissima, non riesco a descriverla. A differenza degli altri piccoli ospiti Eugenio non era in carne, aveva un anno e mezzo e pesava 7 kg. Però non era denutrito, aveva infatti un’energia incredibile.

La mattina e il pomeriggio andavamo da lui in istituto per un’ora, mentre il resto del tempo della giornata era dedicato a tutti i giri burocratici che dovevamo compiere.

Una volta terminata tutta la parte della documentazione, Maddalena e Stefano insieme al piccolo Eugenio tornano a Kiev. Qui trascorrono altri giorni e altre settimane. Ci sono tutta una serie di atti da concludere. E’ un periodo importante perché lo usano per creare un rapporto con il bambino, che ancora non parlava.

Finalmente arriva il momento in cui possono tornare tutti in Italia.

Però resta ancora il desiderio di quel secondo figlio. La gioia di aver creato una famiglia con il piccolo Eugenio infatti non spegne quella fiamma, che si era accesa nei loro cuori da tanto tempo ormai.

Purtroppo le cose non andarono benissimo a livello di tempistica per il nostro secondo figlio. Dovemmo rifare tutto da capo e passarono molti anni, circa 6, dal momento che ci rivolgemmo all’Associazione.

Quando dopo tanto optammo per la Russia, come nazione di provenienza, ci fu assegnato Richard, che allora aveva 7 anni.

Partimmo per Mosca. Era il primo maggio. Ci venne a prendere l’autista e ricordo solo il grande ingorgo che ci fece mettere il doppio delle ore per spostarci. Arrivammo in una cittadina carina, molto turistica,

Prima di raggiungere il luogo dell’incontro con Richard, a Stefano arrivò la triste notizia della morte di suo papà. Avevano quasi preso la decisione di tornare in Italia per il funerale e ripartire subito dopo per la Russia. Stefano si prese qualche ora di solitudine, per stare con se stesso e il dolore del suo lutto. Dopodiché tornò da sua moglie e le disse: se tu avessi dovuto partorire non potevamo di certo rimandare. Restarono e il giorno dopo incontrarono il loro secondo figlio.

Ci accompagnarono nell’istituto dove era ospite Richard. Si chiamava Casa dei bambini. Venimmo condotti nella palestra, avevamo l’impressione di essere in una scuola pubblica. Anche stavolta, come nel caso di Eugenio, c’era un grande giardino e tanti giochi per gli ospiti.

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Ci presentarono lui. Un bambino bellissimo con gli occhi chiari, tra l’azzurro e il verde. Ebbi un tuffo al cuore. Quegli occhi mi ricordavano quelli dei miei genitori. E anche del padre di Stefano. Richard si avvicinò a noi porgendoci la mano, una situazione grottesca, ma lui era grande. Poi da un armadietto che era lì vicino tirò fuori dei tamburelli. Mio marito, appassionato di musica, aveva iniziato da poco tempo a costruire a casa delle percussioni e quindi anche tamburelli. Fu per Stefano un impatto emotivo importante, considerando anche il lutto che lo aveva colpito.

“Non vedi più i lineamenti. Vedi l’amore”. Ecco spiegata in pochissime parole l’adozione.

Anonimo

Durante il soggiorno in quella cittadina russa, Maddalena e Stefano andavano ogni giorno a incontrare Richard, creando così un rapporto familiare.

Sono stati tre i viaggi in Russia che i due genitori hanno dovuto affrontare. Per non fare sentire troppo a Richard la distanza, quando erano in Italia restavano in contatto telefonico giornaliero con lui, grazie anche all’aiuto di una loro amica russa che traduceva e rassicurava il bambino.

Nel terzo viaggio abbiamo portato con noi anche Eugenio che finalmente poteva conoscere suo fratello, dopo averlo visto in foto. Ricordo che in questo corridoio lunghissimo uscì fuori Richard sbalordito, perché non sapeva del nostro arrivo, Eugenio spalancò le braccia e si abbracciarono.

Oggi i due figli adolescenti creano qualche grattacapo a mamma e papà, come accade in quasi tutte le famiglie, ma le loro vite si sono unite per un motivo e ora sono insieme ad affrontare il futuro.

Una madre  è come una sorgente di montagna che nutre l’albero alle sue radici, ma una donna che diventa madre del bimbo partorito da un’altra donna è come l’acqua che evapora fino a diventare nuvola e viaggia per lunghe distanze per nutrire un albero solo nel deserto

dal Talmud

Essere genitore significa essere consapevole dell’importanza di avere un figlio, che non è l’estensione del proprio essere ma un individuo a sé, totalmente libero e autonomo e che richiede una dedizione totale e un bene incondizionato. Mamma e papà si assumono l’impegno di guidare i propri figli sulla via della consapevolezza, della crescita di sé e della realizzazione. Nessuna famiglia è perfetta e non esiste la famigliola del mulino bianco. Però poco importa se il rapporto genitori e figli discende da un DNA in comune. Una famiglia è tale indipendentemente se biologia o adottiva.

Ritornando a Marco

Posso solo consigliare di adottare senza avere paura, perché donando se stessi si regala la vita. Certo essere adottato a due mesi e mezzo è più semplice rispetto ad adottare bambini di età più grande, però tutto si può superare.

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A chi è stato adottato voglio dire di non farsene un problema. Che non bisogna sentirsi diversi ma speciali. E che non si deve aver paura di affrontare il proprio futuro perché ciò che ci contraddistingue non è una mancanza ma una peculiarità, che non a tutti è concessa. Avere chiaro in mente che è genitore è chi ti vuole vedere felice.

Soprattutto di ricordare che di mamma non ce n’è una sola.


Nei cieli di cobalto
Eppure sentire nei sogni in fondo a un pianto
Nei giorni di silenzio c’è…. Un senso di te.

Sabrina Villa

Per Vasco “Cambiare il mondo è quasi impossibile -Si può cambiare solo se stessi - Sembra poco ma se ci riuscissi - Faresti la rivoluzione” . Ecco, in questo lungo periodo di quarantena, molti di noi hanno dovuto imparare nuovi modi, di stare in casa, di comunicare, di esternare i propri sentimenti. Cambiare noi stessi per modificare quello che ci circonda. Tutto si è fermato, in attesa del pronti via, per riallacciare i fili, lì dove si erano interrotti. I pensieri hanno corso liberamente a sogni e desideri, riflessioni e immagini e, con la mente libera, hanno elaborato anche nuovi modi di esternazione e rappresentazione dell’attualità. Questa è la mia rubrica e io sono Sabrina Villa. Nata a Roma e innamorata della mia città. Sono un'eclettica per definizione: architettura, pittura, teatro, cucina, sport, calcio, libri. Mi appassiona tutto. E' stato così anche nel giornalismo, non c'è ambito che non abbia toccato. Ogni settore ha la sua attrattiva. Mi sono cimentata in tv, radio, carta stampata. Oggi, come al solito, mi occupo di tante cose insieme: eventi, comunicazione, organizzazione. La mente è sempre in un irriducibile movimento.

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