Non esistono più “le bandiere di una volta”
Le “bandiere”? Solo quelle che sventolano allo stadio o sui balconi.
La fedeltà alla maglia? Sempre più rara.
Il conto in banca? A tanti zeri, of course.
Benvenuti nel calcio moderno. Quello delle pay tv, dei posticipi, degli anticipi, del campionato spezzatino, delle partite infrasettimanali e a tutte le ore. Dei calciatori che vanno e vengono, seguendo le sirene dell’unica cosa che oggi che conta: il denaro. Sponsor, monte ingaggi, pubblicità. E via di calciomercato. In tutte le stagioni. O quasi.
L’essenza del calcio attuale? Il Calciomercato. Oggi tutti i giocatori possono cambiare casacca da un momento all’altro. E’ il regno dell’Insecuritas totale. La lotta di tutti contro tutti.
(Maurizio Mosca)
Ricordi di un calcio che non c’è più
A me manca il calcio degli anni ’80 e ’90. Giravano meno soldi, si giocava di meno, c’era maggiore attesa per le partite. Era tutto così romantico, almeno ai miei occhi. Ricordo con tenerezza quei momenti della domenica pomeriggio trascorsi ad ascoltare Tutto il calcio minuto per minuto.
Sono troppo dura, troppo cinica? Credo di no. Forse solo spinta dal rimpianto di un “calcio che non c’è più”. Quello che ho imparato ad amare attraverso gli occhi di mio padre. Lui, attaccante e goleador prima. Invalido, ma costantemente innamorato del pallone, dopo. Da lui ho imparato che: “la partita finisce quando l’arbitro fischia”. Per cui: no polemiche sull’arbitraggio, no recriminazioni, no discussioni post gara. Perché finiti i 90 minuti su un campo da gioco, inizia la vita reale.
Certezze che sono venute meno quando, appena trasferita a Roma, ho scoperto l’esistenza di un altro tipo di tifo. Ma questa è un’altra storia.
Campioni vecchio stampo
Sempre grazie a mio papà ho imparato ad amare e apprezzare i campioni vecchio stampo. Al di là della fede calcistica.
“I campioni non si costruiscono in palestra. Si costruiscono dall’interno, partendo da qualcosa che hanno nel profondo: un desiderio, un sogno, una visione”
Muhammad Ali
Ho tanti ricordi di quella ragazza che, adolescente, andava all’edicola a comprare il quotidiano sportivo invece di Cioè. Che collezionava meticolosamente poster, adesivi, gadget e ritagli di giornale. Con protagonisti Roberto Baggio prima e Alessandro Del Piero dopo.
Ed è stato proprio il numero dieci bianconero, originario di Conegliano Veneto, la mia “bandiera”.
Le bandiere nel calcio
Le “bandiere” nel calcio sono quei giocatori che hanno scelto di legare la propria carriera e la propria immagine ad una sola squadra. Riuscendovi.
Sono calciatori diventati simboli. E non solo per la pura fedeltà alla maglia, intesa come anni trascorsi al servizio di quel club. E nemmeno, o non solo, per il numero di presenze in campo. Ma per averne incarnato lo spirito in un determinato arco di tempo. Ed esserne diventato il punto di riferimento.
- FRANCO BARESI – Milan 1972-1997
- ALESSANDRO DEL PIERO – Juventus 1993-2012
- EUSEBIO – Benfica 1960-1975
- GIACINTO FACCHETTI – Inter 1960-1978
- RYAN GIGGS – Manchester United 1987-2014
- PAOLO MALDINI – Milan 1978-2009
- PELE’ – Santos 1956-1974
- CARLES PUYOL – Barcellona 1995-2014
- GAETANO SCIREA – Juventus 1974-1988
- FRANCESCO TOTTI – Roma 1989-
- GIGI RIVA – Cagliari 1962-1976
- JAVIER ZANETTI – Inter 1995-2004
Fonte: Eurosport
Le “bandiere” (questo di cui sopra è solo un elenco esemplificativo e sommario) sono quei giocatori che ti rimangono nella testa (e nel cuore) e appena senti quel cognome lo associ ad una squadra. E respiri l’atmosfera di quell’epoca. E di quei campionati. E senti l’eco di quei gol.
La storia d’amore tra Rudi Voeller e la Roma
C’è stato un periodo in cui dire Voeller e dire Giannini significava dire Roma. Era un calcio diverso, in cui i giocatori non si trasferivano di squadra in squadra con così grande frequenza, ed era anche un momento in cui magari di fronte ad un’offerta di ingaggio non proprio importantissima o poco più alta rispetto a quanto il giocatore prendeva nella propria squadra, non si sceglieva di andarsene.
Gabriele Ziantoni
Nonostante io non sia romanista, ho sentito quell’eco quando ho letto il titolo del nuovo romanzo di Gabriele Ziantoni: Rudi Voeller, il tedesco volante.
Il panzer tedesco vestì la maglia della “Magica” dal 1987 al 1992. In quegli anni la Roma vinse solo una Coppa Italia, ma Rudi è rimasto per sempre nel cuore dei tifosi: 45 gol in cinque stagioni gli sono bastati per diventare per sempre un idolo, specie tra gli over 40. Oggi quel giocatore viene celebrato e raccontato in questo che, ci tiene a sottolineare l’autore, è un romanzo che tratta della carriera di Voeller e della sua storia d’amore con la Roma.
Il tedesco volante
Rudi Voeller per i tifosi della Roma ha rappresentato moltissimo, quindi la scelta di raccontare la storia di Rudi Voeller è anche la scelta di raccontare un calcio che non esiste più, il calcio tra gli anni ’80 e gli anni ’90, il famoso calcio delle magliette dall’1 all’11, del caffè Borghetti e del panino con la frittata.
Rudi Voeller rappresenta, continua Ziantoni, per tutti quelli della mia generazione uno dei motivi per cui si è scelto di tifare Roma. Nel senso che la Roma ha poi avuto nella sua storia, specialmente quella recente, grandissimi campioni tra tutti Totti e De Rossi. All’epoca, invece, era una squadra molto operaia che aveva solamente questo “tedescone” lì davanti che si era innamorato di questa città e pur potendo ambire a squadre più importanti (lui era un campione del mondo) ha scelto di rimanere a Roma, fino a quando non è stato effettivamente cacciato da Boskov. Altrimenti probabilmente ci sarebbe rimasto fino a fine carriera.
Voeller, campione sfortunato
Quello che rende speciale il rapporto tra Rudi Voeller e la sua tifoseria è che lui era profondamente della Roma, inteso non come tifoso della Roma ma come impersonificazione della storia della Roma. La Roma è una squadra bellissima, romantica, ma che non ha vinto niente o davvero molto poco. Molto sfortunata. E i suoi tifosi probabilmente la amano anche per questo. E lo stesso vale per Voeller.
Se pensi che quando giocava al Werder Brema è arrivato in cinque anni tre volte secondo e due volte a pari merito con la prima (perdendo per i gol fatti). Poi è arrivato alla Roma e il Werder Brema in quella stagione ha vinto il campionato. Con la Roma ha vinto pochissimo: solo una coppa Italia. La Coppa Uefa (lui era stato capocannoniere della competizione) l’ha persa in finale contro l’Inter. E’ andato all’Olympique di Marsiglia e ha vinto Campionato e Champions League. Ma quel Campionato fu revocato per lo scandalo Valenciennes e gli fu tolta la possibilità di giocare il Mondiale per Club (l’attuale Coppa intercontinentale) e la supercoppa europea.
Va negli Stati Uniti con la Germania (era il suo ultimo mondiale). Chiamato a gran voce dalla gente fa doppietta contro il Belgio, va agli ottavi di finale e poi esce ai quarti con la Romania.
Da allenatore della Germania perde in finale a Yokohama contro il Brasile nel 2002.
Rudi Voeller: molto sfortunato e quindi molto romanista.
Rudi Voeller nel romanzo di Ziantoni
È sera a Leverkusen. E a casa Voeller squilla il telefono. L’addio improvviso di Fabio Capello e le dimissioni inaspettate di Cesare Prandelli hanno messo la Roma in difficoltà: c’è bisogno di un nuovo allenatore. Richiesta alla quale Rudi non può che rispondere “presente”.
I 26 giorni sulla panchina giallorossa di Rudi Voeller sono la parte romanzata del libro. La chiamata di Baldini, i primi allenamenti, la prima conferenza stampa, i primi dubbi. Lui era arrivato con un atto d’amore. Aveva sentito che la sua amata Roma aveva bisogno d’aiuto ed era partito imbarcandosi in questa avventura senza farsi domande. E ha pagato. Con il posto. Dando le dimissioni. Ma il pubblico lo ha capito e quindi lo ha amato ancora di più.
Rudi Voeller. Il tedesco Volante è dedicato ai romanisti in particolare ma anche agli amanti del calcio e delle “bandiere” in generale. Dentro, ci confessa Ziantoni, c’è una storia di profonda malinconia.
Malinconico addio
Malinconia, appunto, di un calcio che non c’è più. Di uno spettacolo sportivo diverso. Sempre più diverso. Complice anche quell’emergenza Covid che ci ha abituati, speriamo ancora per poco, all’immagine di partite giocate in stadi tristemente vuoti.
Uno spettacolo in cui sventolano sempre meno le bandiere.
E sempre di più non esistono “le bandiere di una volta”.
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