Siamo donne, oltre al microfono c’è di più

Ho pensato spesso, nel corso di queste settimane, a cosa scrivere per il mio primo articolo su questo sito, una bella realtà nata durante il lockdown che, adesso, si adatta, come tutti, ad una nuova forma di vita vera.

Ho scelto di non raccontare una storia, cosa che spero di poter fare dalla prossima volta, ma ho scelto di raccontare tante storie. Tutte e nessuna.

Ho scelto, in poche righe, di sottolineare che le donne che sono (non fanno…) le giornaliste spesso sono donne costrette a confrontarsi con pregiudizi, cattiverie, voci e bassezze.

Sono donne che vengono invitate a stirare le camicie o a cucinare il sugo. Come se poi tutte le donne, per grazia divina, fossero brave massaie. Ma questa è un’altra storia.

Quella che qui voglio raccontare è la storia di ragazze, sì ragazze perché spesso si inizia molto giovani, che partono da piccole realtà locali, fanno due o tre lavori insieme, hanno stipendi precari e si confrontano con un mondo molto maschilista.

Editori, direttori, colleghi e protagonisti del mondo dello sport, non è facile far sentire la propria voce ed essere giudicate per la competenza e non per il colore dello smalto. Ma sono cose che le donne giornaliste possono e vogliono superare. Così come si può e si vuole superare l’odio degli haters sui social, che mai penserebbero di rivolgersi con lo stesso tono usato su Twitter alla loro moglie o alla loro madre.

C’è una cosa che, però, le donne giornaliste faticano a superare: la mancata solidarietà delle altre donne. Vedere persone del tuo stesso sesso che ridono alle battute sul sugo o sulle camicie, che mettono like a fotomontaggi in cui vieni ritratta come Mariangela Fantozzi o che si chiedono, sprezzanti, “da quanto tempo tu non faccia sesso per essere così acida nei tuoi articoli” è qualcosa a cui difficilmente si va oltre.

Siamo donne, oltre al microfono c’è di più. Siamo donne e, come questo sito insegna, siamo distanti, ma dovremmo essere unite sempre. Non solo quando ci fa comodo.