Il contatto e la distanza
La lotta tra bene e male e la contrapposizione tra libertà di stampa e potere, nell’accezione più negativa, sono gli ingredienti principali con cui narrare storia e vita. Tutti vorremmo che a trionfare fosse sempre il bene e che esistesse l’eroe di turno a combattere per la giustizia. Innumerevoli volte i paladini, armati di penna e tastiera, sono stati impersonati da reporter coraggiosi. Capaci di tenere allo stesso tempo il contatto e la distanza, in grado di mostrare immedesimazione, onestà intellettuale e senso critico.
I giornalisti. I rappresentanti di quel quarto potere che nell’immaginario comune dovrebbe ergersi a difesa in caso di mancanze o storture dei tre poteri, legislativo, esecutivo e giudiziario.
Una figura quella del giornalista che ben si adatta anche alla forza narrativa del cinema. Tanti film di successo ne sono la prova.
Quarto Potere. Uno dei film storicamente ai primi posti nelle liste di film più importanti della storia del cinema. Orson Welles, lo girò a soli 25 anni. Non è un film dedicato principalmente al giornalismo ma ne racconta e mostra precocemente molti presupposti.
Il perché di così tanta attenzione verso questa professione appare evidente nel momento in cui si comprende che gli organi di informazione sono un presupposto indispensabile per il corretto funzionamento della democrazia. Nel 2019 l’Italia era quarantaseiesima nella classifica mondiale sulla Libertà di Informazione di Reporters sans frontières. Nel 2018 la nostra Nazione è stata quella che ha registrato l’aumento più netto del numero di segnalazioni sulla libertà dei media. E purtroppo oggi l’attacco non viene solo dall’esterno, ma anche dai suoi stessi rappresentanti.
Sempre più spesso si sente etichettare i giornalisti come pennivendoli, a causa di quel tradimento che si riconosce loro, per aver abbandonato il sentimento di giustizia e di lotta.
Graziella De Palo, Italo Toni, Almerigo Grilz, Guido Puletti, Marco Luchetta con Alessandro Ota e Dario D’Angelo, Ilaria Alpi con Miran Hrovatin, Marcello Palmisano, Gabriel Gruener, Antonio Russo, Maria Grazia Cutuli, Raffaele Ciriello, Enzo Baldoni, Fabio Polenghi, Vittorio Arrigoni, Andrea Rocchelli e Simone Camilli. Dal 1980 a Beirut al 2014 a Gaza, sono 19 i giornalisti e gli operatori tv uccisi all’estero perché svolgevano in prima linea il loro lavoro. I loro nomi si aggiungono a quelli dei loro nove colleghi uccisi dalle mafie tra il 1960 e il 1993: Cosimo Cristina, Mauro De Mauro, Giovanni Spampinato, Giuseppe Impastato, Mario Francese, Giuseppe Fava, Giancarlo Siani, Mauro Rostagno, Giuseppe Alfano. E alle due vittime del terrorismo degli anni di piombo, Carlo Casalegno e Walter Tobagi.
Numerose sono le vite andate perdute in nome di quella responsabilità. Trenta nomi per trenta storie personali diverse, ma accomunate dalla stessa passione per il giornalismo come impegno civile.
Non si avverte più stima verso la categoria giornalistica. Prima esisteva un riconoscimento rispettoso verso chi riportava in maniera scrupolosa, precisa e non viziata da personali opinioni le notizie al pubblico. Adesso invece il sentimento comune guarda al giornalista con sospetto, nel migliore dei casi, ritenuto non più in grado di lavorare al servizio della popolazione.
C’è ancora chi però questo mestiere lo sa fare bene.
Guy Chiappaventi
è un giornalista inviato del TgLa7. Vincitore del premio Ilaria Alpi nel 1998. Autore di numerosi documentari tra cui Mammasantissima e Nostra signora ‘ndrangheta, sul ruolo delle donne nella mafia e nella ‘ndrangheta, e L’uomo nero Storia di Massimo Carminati, vincitore del premio Parise 2017 e realizzato insieme a
Lirio Abbate e Flavia Filippi. La sua carriera l’ha portato a muoversi fra il G8 di Genova, il crollo del regime di Saddam Hussein, la Roma di Mafia Capitale e numerosi altri fatti di notevole rilevanza. Tra le pubblicazioni Baghdad anno zero. Pistole e palloni, La valigia del centravanti, Aveva un volto bianco e tirato. Il caso Re Cecconi, Mare Fermo.
Il giornalismo al momento è un malato grave. La carta stampata soffre molto. In parte la responsabilità è delle nuove tecnologie, che hanno messo in crisi il giornalismo tradizionale, e in parte si è abbassata molto la credibilità di chi fa questo mestiere visto ormai come una casta e voce del potere. La colpa di questa sfiducia è anche di alcuni giornalisti che si fanno portatori di interessi e di idee politiche.
Tutti gli uomini del presidente. Libro scritto nel 1974 dai giornalisti statunitensi Bob Woodward e Carl Bernstein. È la cronaca dell’inchiesta svolta dai due giornalisti del Washington Post sul caso Watergate, che portò alle dimissioni di Richard Nixon dalla carica di Presidente degli Stati Uniti.A questo libro si ispira il film del 1976, diretto da Alan J. Pakula, con Robert Redford e Dustin Hoffman
Al giorno d’oggi il giornalismo possono farlo in tanti. Basta avere un cellulare, scattare una foto e trovare le informazioni su internet. Almeno così credono in troppi.
Quando erano ancora in pochi a farla questa professione ci volevano giorni per realizzare un pezzo. Bisognava andare sul posto e creare il contatto con la notizia. Adesso è stata eliminata la mediazione del giornalista.
I giornalisti esistono ancora ma la figura dell’inviato è in via d’estinzione. Anche se devo dire che io marzo e aprile ho girato molto e raccontato tanto.
Nei miei viaggi durante il lockdown mi sono dato la regola di non entrare negli ospedali e in particolare nei reparti di terapia intensiva. Per non mettere in pericolo me e gli altri ma anche e soprattutto per quella considerazione che è d’obbligo verso una zona di dolore. Esiste ancora la deontologia malgrado siano tanti pure gli scivoloni.
E purtroppo il ripetersi di cadute e passi falsi determina quel senso di allontanamento dalla credibilità del giornalista. Specie davanti a immagini o fotografie particolarmente raccapriccianti di soggetti coinvolti in fatti di cronaca, o in casi peggiori che coinvolgono minori. Da una parte si dice che è diritto di cronaca, dall’altra c’è l’etichetta di sciacalli.
Il giornalismo italiano si è risollevato con il lockdown. Ad esempio La7 ha fatto molto, i giornali stessi hanno venduto più copie, purtroppo a tutto questo fomento e ardore non c’è stata corrispondenza con gli introiti pubblicitari e quindi con la possibilità di dare quella spinta in più.
The Post è un film del 2017 diretto da Steven Spielberg con protagonisti Meryl Streep e Tom Hanks. La pellicola narra la vicenda della pubblicazione dei Pentagon Papers, documenti top secret del dipartimento della difesa degli Stati Uniti d’America, prima sul New York Times e poi sul Washington Post nel 1971
Ci sono stati momenti di grande giornalismo in quei mesi. Io ho avuto la possibilità di essere in prima linea, alcune cose le ho viste meglio. E’ vero anche che la prima linea è pure il posto peggiore perché non vedi da dove arrivano i missili. Quello che è accaduto al Nord Italia forse non è stato percepito con tutta la sua violenza di morte. Se riflettiamo che a Roma nei primi mesi del 2020 ci sono stati meno morti dello stesso periodo del 2019, è normale che non si possa comprendere cosa sia accaduto in altre regioni o città. Al centro sud il Covid-19 in realtà non c’è stato.
Sono andato come inviato a Tortona, in provincia di Alessandria, e ho visto dei container frigo pieni di bare accatastate. Stavano lì così, in attesa che arrivasse il loro tempo di essere portate al forno crematorio di Valenza Po, dove c’era una lunga lista d’attesa.
Una professione quella del giornalista che è quasi una missione. Si deve essere disposti a rinunce, a essere sottopagati o pagati zero all’inizio. E nelle situazioni estreme vengono fuori le reali capacità e virtù. In queste circostanze i migliori danno il meglio e i peggiori il peggio. Come del resto accade per ogni avvenimento, ognuno di noi reagisce in modo differente.
Ho iniziato giovanissimo a 22-23 anni dopo la laurea. Stage ovviamente non retribuiti, all’Ansa e Telemontecarlo.
Dal mio caporedattore all’Ansa, Vitantonio Lopez, ho imparato molto. E’ stato capace di vedere in me ragazzino la stoffa del giornalista. Mentre nella redazione del Direttore Sandro Curzi io ero l’ultimo arrivato ma il ricordo è nitido nella mente. Era il luglio del 1994, il giorno di Italia- Bulgaria del Campionato Mondiale di calcio negli USA. Era anche però il giorno delle dimissioni del pool di mani pulite. Curzi lo definì come il momento cruciale. Ci volle tutti riuniti e ci disse che voleva 6 titoli sull’argomento, tutto il Tg doveva vertere su quel tema. Fu un periodo molto alto per la mia professione. Come importante è stata anche l’esperienza alla Gazzetta di Reggio Emilia, di cui porto ancora i bei ricordi e i frutti del lavoro svolto lì.
Una gavetta importante e necessaria per capire, apprendere e conoscere e arrivare nel profondo.
Da ogni collega ho imparato. Mi piace lavorare con chi è più bravo di me. Anche se devo ammettere che sono abituato a lavorare da solo.
C’è ancora qualcosa che non ho fatto e chi mi piacerebbe realizzare. Avrei voluto indagare e raccontare la fine di Agostino Di Bartolomei, una figura romantica e drammatica. E mi sarebbe piaciuto lavorare con Bocca e i grandi inviati, uno tra tutti Tommaso Besozzi. E’ stato l’ autore dell’inchiesta sulla vicenda dell’uccisione del bandito Giuliano. Di sicuro c’è solo che è morto, questo è il titolo di quel lavoro investigativo. Besozzi, nell’indagine da lui fatta, smentisce la versione ufficiale del fatto e scopre che il bandito non era stato ucciso dai carabinieri ma dal suo amico Pisciotta. Un’opera che ha consentito di capire meglio i legami tra la mafia, che si era sbarazzata dell’ormai scomodo Giuliano, la politica e diversi apparati dello Stato.
Forse mi sarebbe piaciuto lavorare nelle redazioni di carta stampata, per la mia passione per la scrittura. Ho scritto ancora poco. Spesso vengo identificato per il mio legame, assolutamente romantico, con la Lazio che rappresenta anche il vincolo con la città di Roma, ora che vivo da qualche anno ormai a Milano. E mi piacerebbe tornare in Iran, dove sono stato già per il terremoto, e realizzare in quei luoghi un reportage sulla situazione odierna.
Il giornalismo è il contatto e la distanza.
HUBERT BEUVE-MÉRY
E’ grande la responsabilità che ha un giornalista. Detiene nella sua mano un forte potere. Spetta a ogni singola mente e coscienza scegliere come armare quella capacità.
Io tendenzialmente racconto solo cose che vedo, cose tangibili perché esiste anche una suggestione dell’occhio. Per me è come se esistesse un patto, tra me e il telespettatore. Chi guarda un mio servizio sa che non avrà una fregatura da me. Non ci deve essere per forza la mia firma al Tg. Può benissimo non esserci il mio pezzo, preferisco non apparire ma rispettare quell’accordo simbolico.
Il caso Spotlight (Spotlight) è un film del 2015 diretto da Tom McCarthy. Narra le vicende reali venute a galla dopo l’indagine del quotidiano The Boston Globe sull’arcivescovo Bernard Francis Law, accusato di aver coperto molti casi di pedofilia avvenuti in diverse parrocchie. L’indagine valse il Premio Pulitzer di pubblico servizio al quotidiano nel 2003 e aprì a numerose indagini sui casi di pedofilia all’interno della Chiesa cattolica.
Semplici lezioni di giornalismo e di professionalità quelle che racconta Guy. Un modo di comportarsi leale e schietto. Perché fare questa professione non vuol dire urlare le notizie con titoli sensazionalistici, stravolgere notizie o martellare con immagini strazianti di dolore.
Marco Pantani era morto. A Rimini. Il giorno dopo o forse due il corpo era stato portato per la camera ardente in chiesa a Cesenatico. Appena arrivato il feretro sua madre si era messa a urlare, fuori di sé. Fu quella l’apertura di qualsiasi sito, radio, Tg. Non ricordo perché, il collega de La7 che era con me per il servizio e io, non l’avevamo presa e da Roma ci avevano massacrati. Un giornalista di Tele San Marino, la TV che Sergio Zavoli dirigeva allora, aveva assistito alla telefonata e alla lavata di capo che avevamo preso. Mi venne vicino e mi disse: “Non preoccuparti, ti posso dare io le immagini, Zavoli queste cose non le vuole vedere in onda”.
Tutti vorremmo che a trionfare fosse sempre il bene e che esistesse il paladino valoroso pronto a battersi per la giustizia. Giornalisti coraggiosi armati di penna e tastiera, eroi.
Allora potremmo essere Eroi,
anche solo per un giorno
Heroes – David Bowie