Vita sotto scorta: la storia di Paolo Borrometi
“Il giornalismo rimane una professione pericolosa”
49 giornalisti uccisi in tutto il mondo nel 2019 a causa del loro lavoro. Secondo il nuovo rapporto di Reporters sans frontières è il numero più basso degli ultimi 16 anni. Nonostante ciò “il giornalismo rimane una professione pericolosa”.
Uccisi solo perché hanno avuto il coraggio di raccontare, scrivere, denunciare, indagare, armati di penna e registratore.
Se il ruolo del giornalista, così come definito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, è quello di “cane da guardia della democrazia”, allora occorre riflettere sul fatto che questa democrazia, numeri alla mano, sia in crisi. Perché fare informazione, voler fare informazione, non può e non deve essere un motivo per morire.
Le minacce non sono solo fisiche e violente. Ci sono anche quelle fatte di carte bollate o quelle che gli addetti ai lavori definiscono “querele bavaglio” ossia il ricorso pretestuoso all’autorità giudiziaria messo in atto per attivare sentimenti di autocensura.
Una vita sotto scorta
In Italia, stando ai dati del 2019 diffusi dal Viminale, al primo giugno, i giornalisti scortati erano 22 a fronte dei 18 dell’anno precedente. Un “privilegio”, secondo l’ex ministro degli Interni Matteo Salvini. Come se vivere sotto scorta fosse un lusso e non una costrizione. Chiedere per credere ai diretti interessati.
Dire la verità è un rischio. Un rischio che tanti cronisti si sono assunti.
La storia di Paolo Borrometi
“Paolo Borrometi è un giornalista nato a Ragusa nel 1983. Collaboratore dell’AGI per la provincia ragusana, nel 2013 ha fondato la testata giornalistica d’inchiesta La spia. Sin da subito la sua attività è stata minacciata dalla malavita di Ragusa e Siracusa, intimidazioni che nel 2014 sono sfociate in violenza”.
Da allora vive sotto scorta.
Continua qui: https://www.panorama.it/news/chi-e-paolo-borrometi-giornalista-minacciato-di-morte-dalla-mafia
“Ti scippo la testa, sarò il tuo peggior incubo”.
E’ passato un po’ di tempo da quelle minacce. E a quelle, purtroppo, negli anni, se ne sono aggiunte tante altre. Ma lui ha continuato a fare il suo dovere: scrivere articoli. Con nomi e cognomi. Lo ha fatto da giornalista e da uomo libero.
Conoscere Paolo Borrometi, seppur solo virtualmente, è stato un onore per me. La sua storia, la sua vita sotto scorta, la sua lotta incessante per la “libertà di raccontare” e ogni singola parola contenuta in quest’intervista mi sono stati di di esempio. E spero lo saranno anche a tutti coloro che amano il Giornalismo e soprattutto a chi, troppo spesso e con superficialità, giudica malamente un’intera categoria.
L’intervista
“Il sogno di Antonio, storia di un ragazzo europeo”. E’ il titolo del tuo ultimo libro, in cui racconti la storia di Antonio Megalizzi. Come e perché hai sentito l’esigenza di scrivere su di lui?
Conobbi la storia di Antonio e me ne innamorai perché Antonio, appunto, e non Antonio Megalizzi, entrò nella nostra vita in quei tragici giorni che separarono l’attentato ai mercatini (ndr: Strasburgo 11/12/2018) dal giorno della sua morte. E tutti pregammo per lui. E Antonio divenne un po’ come nostro fratello, nostro cugino, un nostro amico, un nostro parente. Poi in un fortunato incontro, poche settimane dopo, conobbi la madre di Antonio e la fidanzata Luana. Da lì iniziò un’amicizia. E allora fu spontaneo scrivere un libro non “su Antonio” ma “per Antonio”.
Quale messaggio vorresti trasferire ai lettori tramite questo libro?
Il messaggio che vorrei lasciare sono gli scritti di Antonio, il messaggio stesso che lui lanciava ad ognuno di noi, con la sua attenzione maniacale verso le fake news, verso il racconto della verità, verso il suo impegno e la sua passione che aveva nel fare il giornalista. Basti pensare che lui faceva altri lavori per mantenersi il giornalismo. Ecco: io penso che Antonio non è una chissà quale figurina ma è appunto un ragazzo che ci ha provato e ci prova ancora oggi grazie ai suoi scritti.
In “Un morto ogni tanto” racconti invece la tua personale battaglia contro la mafia invisibile. Una denuncia senz’appello di un fenomeno che alcuni ancora si ostinano a negare…
“Un morto ogni tanto” è un libro che mi è costato tanto. Mi è costata tanta fatica, tanta sofferenza. Nasce da una delle mie più grandi paure: quella eclatante azione omicidiaria, quell’attentato scoperto dalle forze dell’ordine che mi hanno ancora una volta salvato la vita in questo percorso di trentadue processi che ho in corso nei confronti di quarantacinque imputati. “Un morto ogni tanto” è il tentativo di raccontare non solo e non tanto la mia vita (che interessa a pochi) quanto le mie inchieste giornalistiche. Un fenomeno, quello delle agromafie. Un territorio, quello del sud-est siciliano dove si è sempre detto che la mafia non ci fosse e invece è il territorio più ricco, se consideriamo, per esempio, la percentuale di sportelli bancari rispetto non solo alla Sicilia ma all’Italia. “Un morto ogni tanto” è un libro con cui ho voluto raccontare nomi, cognomi, trame, affinchè tutti sapessero.
Quanto pesa il coraggio di informare, scrivere, nonostante tutto, nonostante le minacce e le intimidazioni continue?
Io lo dico sempre: non è coraggio. In realtà non ho coraggio a fare quello che faccio. Ho tanta paura. Ce l’ho dalle prime minacce, ce l’ho ogni giorno. Non è coraggio. Io sognavo di fare il giornalista quando conobbi la storia di un giornalista della mia terra: Giovanni Spampinato. E iniziai ad appassionarmi alla sua storia e appassionandomi alla sua storia mi appassionavo al giornalismo. Ed ecco che ho iniziato a fare giornalismo, a studiare. E quello che mi piaceva di più era fare giornalismo d’inchiesta, cioè dare un proprio contributo ad un territorio, ad una terra, per svegliarla dal torpore. Questo per me è il giornalismo d’inchiesta. Questo per me è il giornalismo che sognavo.
Da quando ti seguo mi ha colpito il tuo appello a fare squadra, per combattere un altro nemico: l’isolamento…
Io faccio sempre questo appello perché sono fermamente convinto che da soli non si va da nessuna parte, insieme, invece, si è certamente più forti. Ho capito a mie spese, nella mia vita, che il male fa squadra, che le mafie fanno squadra tra di loro. Le persone per bene, che sono l’assoluta stragrande maggioranza, non riescono a fare squadra. Ecco perché chiedo di fare squadra. E poi anche contro l’isolamento. Io nella mia vita sono stato spesso solo e penso che l’isolamento sia una delle sensazioni in assoluto più brutte.
L’Italia detiene il record europeo di giornalisti sotto scorta. Questo dato cosa racconta di noi e del nostro Paese?
Denota tante cose. Noi siamo il Paese occidentale che ha pagato il prezzo più alto per i giornalisti uccisi dalle mafie e dal terrorismo. Denota una grande attenzione nel nostro Paese nel cercare la verità e farlo tramite degli straordinari e straordinarie giornalisti e giornaliste. Denota che le mafie, la corruzione, l’illegalità, i piccoli potenti, cercano di bloccare il giornalismo libero. Perché l’articolo 21 della Costituzione non è soltanto il diritto/dovere del giornalista a informare ma è soprattutto il diritto del cittadino ad essere informato. Ecco che quindi sono assolutamente convinto che minacciano i giornalisti in verità per minacciare la libertà di ognuno di noi.
Che rapporto hai con la paura?
E’ una domanda difficile. Io ho paura, lo dicevo prima. Ho avuto paura sempre. Io sono assolutamente convinto che la paura è un fatto umano che io vivo quotidianamente ogni istante della mia vita, quando penso alle minacce, all’aggressione, agli attentati, alla vita sotto scorta e a quella che invece poteva essere e a quella che purtroppo potrebbe essere. Però ho imparato a non farmi bloccare le gambe da quella paura ma ad andare avanti con la consapevolezza del pericolo. Ma ad andare avanti. Altrimenti non è più paura, ma anche rassegnazione.
Vivendo sotto scorta, quale la cosa che ti manca di più?
Sono tante le cose che mi mancano: mi manca banalmente la quotidianità. La vita sotto scorta per quanto non vada drammatizzata, perchè a me ha salvato la vita, è una vita di privazioni quotidiane. Io lo dico sempre: uno dei miei sogni è quello di una passeggiata al mare, magari mano nella mano con la donna che un giorno avrò accanto, o con dei figli, o con il mio cane, senza lo sguardo attento e vigile di chi mi accompagna.
“Se c’è un giornalista che rischia la vita in Italia questo è Paolo Borrometi”. A dirlo è il Procuratore aggiunto della Direzione Distrettuale Antimafia di Catania. Una dichiarazione forte che rispecchia l’immagine di una categoria spesso accusata e giudicata superficialmente. Quanto è importante invece, oggi come ieri, il ruolo del cronista?
Il ruolo del cronista è un ruolo fondamentale perchè, appunto come dicevo prima, la libertà di conoscere i fatti che ci accadono spesso sotto il naso, proviene proprio dalla possibilità di essere informati dai cronisti liberi. Un giornalista che vede un fatto e non lo denuncia non solo non avrà fatto bene il proprio dovere ma si sarà portato con sè la responsabilità di non aver informato, e quindi di non aver permesso ai cittadini di scegliere da che parte stare. Ecco perchè il ruolo del giornalista è fondamentale ancora oggi ed è anzi sempre più fondamentale. Noi ce lo dobbiamo ricordare quando ci attaccano, noi non siamo una “casta” come qualcuno in mala fede vorrebbe dipingerci. Noi abbiamo un ruolo fondamentale che è quello di informare e farlo nell’assoluta e straordinaria possibilità che i cittadini hanno di conoscere ciò che gli accade accanto.
La libertà. Libertà di stampa, di espressione, sancita dall’articolo 21 della Costituzione. Secondo la tua esperienza, oggi ci possiamo ritenere davvero uomini e donne libere? E qual è il prezzo da pagare per questa libertà?
Ti racconto una cosa per risponderti a questa domanda. Spesso nelle scuole mi è stato detto: “eh, ma la vita sotto scorta è una vita di costrizione”. Ebbene io mi rendo conto probabilmente di aver perso un pizzico della mia libertà fisica, ma di aver preservato la mia libertà più importante che è quella appunto di parlare, di raccontare. Questa è la libertà. Io non so quanto alto sia il prezzo per questa libertà. So però che per questa libertà ne vale veramente la pena.