Da casa a casa: le partenze di ritorno
Sembra un rebus risolto male e invece è l’espressione più giusta per raccontare il viaggio da Milano a Trapani. E’ una partenza ma al tempo stesso anche un ritorno. Placo subito l’invasamento da Omero e il poema epico me lo tengo per un altro momento. Lungi da me voler sembrare Ulisse in gonnella, ma visto che ho un biglietto staccato per la Sicilia proverò a spiegare cosa significa questo spostamento per un fuorisede, o meglio per me.
Significa che il giorno prima non vorrei partire, che ho ancora mille cose da fare e che dal giorno dopo perdo i miei ritmi, le mie abitudini, i miei orari e ritrovo quelli della mia famiglia. In pratica arrivata a casa riscopro che: tra la colazione e il pranzo può intercorrere un intervallo di quattro ore, che il pranzo si consuma ogni giorno ed entro le due del pomeriggio, che tra il pranzo e la cena c’è uno stacco di almeno sei ore e mezza, che poi mi faccio il cubo e vado a letto.
Significa che devo pensare a cosa voglio mangiare una volta atterrata e possibilmente comunicarlo prima della partenza. Ciò per evitare che sull’aereo io debba rispondere a questa domanda dei miei al telefono. Non si parte se prima non ho espresso il desiderio e mi piacerebbe non avere gli occhi dell’hostess puntati addosso mentre nomino i pezzi di rosticceria che vorrei ad attendermi agli arrivi.
Significa che per dieci giorni non dovrò occuparmi della spesa, della cucina e della vita adulta. Torno a casa e ho 16 anni. E me lo ricordano la mia camera, le stampe di Audrey Hepburn e il fotomontaggio di me e Stefano Accorsi innamorati. Io di lui, lui del Maxi-bon.
Significa che non dovrò preparami io la colazione. E un po’ mi dispiace. Perché in questo religioso rituale c’è tutto quello di cui sono estremamente gelosa: il silenzio, la moka, il caffè fuori dalla moka, il caffè che allaga il piano cottura, i miei biscotti o qualche merendina dalla dubbia genuinità e dalle calorie certe. Per qualche mattina non dovrò occuparmi di tutto questo perché qualcun altro lo farà per me. E meno male perché io la macchinetta del caffè dei miei ancora non ho capito come funziona.
Significa che mi accorgo che ci si abitua a tutto e si accetta tutto. Anche a non avere più il mare a portata di occhio. Non lo vedi e in fondo ti convinci che non esiste davvero, che ne puoi fare a meno. Ed ecco che torna Odisseo e tutta l’epopea epica e le belle allitterazioni, direte giustamente voi, miei lettori. Ma no, mi fermo qui. Però il mare mi manca sempre. E anche se quest’anno ci andrò glabra come Cugino Itt e in forma come per i casting di “Vite al limite”, io non ci rinuncio.
Significa che partirò con una borsa piccola. Che tanto di mutande in casa a Trapani ne ho pieni i cassetti. E alla fine se ho quelle, ho tutto. Ecco, partire per tornare significa questo. Affrontare un viaggio senza l’ansia di aver messo un numero sufficiente di mutande per affrontare la vacanza. Significa sentire mia madre al telefono che ogni vigilia di partenza mi raccomanda: “Non portarti le mutande che qui ne hai in abbondanza”.
Che poi mi chiedo come avrà risolto il problema Ulisse. Dieci anni fuori casa sono tanti, e l’Intimo Atena mi sa che non glielo ha fornito.