Con le cuffie in testa, Queen radio
Con le cuffie in testa, la voce, la radio, la malìa e un mondo che si crea. Può accadere ascoltando una radiocronaca, oppure mentre passa una canzone, od anche in piena notte mentre si ascoltano talk di varia natura. Tutto è legato al suono che passa forte, dolce e carico di significato. La voce crea un immaginario che riesce a dare vita alle più svariate realtà.
Ricordo ancora perfettamente la mia prima volta in quella che era, per me, LA redazione della radio. Roma, Saxa Rubra, Tutto il calcio minuto per minuto. Da lì si irradiavano le voci storiche di Enrico Ameri e Sandro Ciotti o, quella a me più vicina, di Riccardo Cucchi. Entrai quasi in punta di piedi, per non disturbare. Invece sentivo il rumore molesto delle mie gambe che tremavano per l’emozione. Quello stesso tremore l’ho riprovato poi, negli anni seguenti, ogni volta che mi trovavo di fronte al microfono, pronta per andare in onda, in quell’habitat particolare, con le cuffie in testa.
La radio è un’universo che corre parallelo al bombardamento visivo. La parola fa vibrare. L’intonazione plasma il momento. L’alchimia tra chi parla e chi ascolta è tutta lì: la voce trasforma ciò che non si vede, da idea a verità.
Uno dei più bravi alchimisti in questo senso è stato, ed è, Riccardo Cucchi, giornalista e radiocronista, laureato in Lettere, assunto alla Rai dopo aver vinto un concorso per radiotelecronisti. All’inizio degli anni ottanta comincia a lavorare per Tutto il calcio minuto per minuto, l’iconica trasmissione radiofonica, e collabora anche con 90º minuto. In seguito si affianca a voci storiche della trasmissione, Ciotti, Ameri e Provenzali. Oltre al calcio segue anche canottaggio, scherma e atletica leggera. Due anni più tardi, nel 1994, sostituisce Sandro Ciotticome radiocronista della Nazionale e prima voce di Tutto il calcio minuto per minuto. Ha partecipato come inviato a sei Olimpiadi e quattro Mondiali di calcio.
IL PAESE DEI BALOCCHI
La mia prima volta in radio è stata la volta giusta perché sono entrato in RAI, in quel mondo che ascoltavo e che desideravo, è stato come arrivare nel paese dei balocchi, ero contento come un bambino.
Ascolto Riccardo e non capisco se sono a casa con la radio accesa oppure siamo in un bar a bere un caffè o forse al telefono. Ancora quell’incantesimo della voce.
Mi racconta di uno dei suoi maestri e io vagheggio con la mente, vedendoli mentre dialogano, li distinguo proprio. Sandro Ciotti mi disse “ricordati sempre di portare con te uno zaino immaginario pieno di parole. Più parole conterrà quello zaino, più sarai pronto ad usare quella giusta quando ti servirà per rendere bella la tua radiocronaca”. Lui mi dava un insegnamento legato al lavoro, ma poi col tempo ho capito che mi ha dato un insegnamento di vita. Più parole conosciamo, più siamo liberi e più siamo in grado di capire la realtà e meno è facile ingannarci.
Gli chiedo se oggi la radio è cambiata, mi risponde che per fortuna non è cambiata. C’è stato un progresso tecnologico dal’analogico al digitale, ma a parte una migliore qualità del suono in verità la radio è ancora composta da un microfono e da una voce con le cuffie in testa. In questo si differenzia molto dalla televisione, che invece è cambiata molto, e sulla quale tanto si è investito tanto da modificarsi nelle stesse riprese della realtà. La differenza tra i due mezzi di comunicazione la si coglie bene se ci affidiamo alla diversità tra radiocronaca e telecronaca. Se osserviamo una fotografia, la telecronaca è la didascalia che accompagna e che menziona i dettagli di quella foto, mentre la radiocronaca è la descrizione di quella fotografia. La voce e la parola devono fartela vedere quella foto, dirti tutto di lei anche se tu non la stai vedendo.
La radio è rimasta e rimarrà quella grande abilità alchemica in cui il bravo alchimista gioisce nel dilettarsi. Un giorno mio figlio Francesco, ancora piccolo, mi chiese: papà ma tu che lavoro fai? io gli risposi: gioco con le parole. E questo destreggiarsi con le parole per raccontare la realtà è qualcosa di affascinante, paragonabile soltanto alla scrittura. Credo che la radio sia il mezzo che più si avvicina alla letteratura, sono entrambe forme di comunicazione che giocano sulla parola. Attraverso la parola si creano immagini in coloro che ascoltano o che leggono.
L’ETERNITA’ DELLE PAROLE
Però mentre le parole di una radiocronaca scompaiono, perché c’è un continuo ricambio, disporre le parole per iscritto vuol dire lasciarle lì per sempre, dare loro eternità. Da qui nasce la mia voglia di scrivere, di raccontarmi e denudarmi. Così ho fatto anche con il mio ultimo lavoro: La partita del secolo. Il ricordo di un Riccardo Cucchi diciassettenne in una notte particolare, vissuta accanto al papà, desiderando di fare il lavoro di Ameri e Martellini.
SE LA VOGLIAMO CHIAMARE FORTUNA
Dopo quarant’anni di microfono e di cuffie in testa posso dire di essere stato molto fortunato. Sono riuscito a realizzare la fantasia di ogni radiocronista sportivo ossia gridare “campioni del mondo”, cosa che prima che a me era successa solo a Carosio e ad Enrico Ameri, mentre Sandro Ciotti non aveva avuto la stessa fortuna nel 1994. Ricordo anche però la grande emozione della vittoria della Champions dell’Inter, perché appartengo alla generazione che oggi piange Mariolino Corso e che imparava a memoria la formazione della grande Inter. Trovarmi con un altro Moratti presidente e raccontare con la mia voce quella vittoria è stato bellissimo.
LE LACRIME
E poi, poi c’è la Lazio. Andavo in curva prima di iniziare a fare quel mestiere e poter urlare “sono le 18 e 4 minuti del 14 maggio del 2000, la Lazio è campione d’Italia 1999/2000” per me fu come l’avverarsi di un sogno. Finii il mio lavoro, posai il microfono e scoppiai in un pianto a dirotto. Seppi solo la sera, da mio figlio Francesco che era in mezzo al campo dell’Olimpico, che la mia voce, ascoltata da tutti i presenti allo stadio di Roma. Riccardo aveva raccontato una storia che, ad oggi, non ha eguali, di uno scudetto vinto a campionato terminato.
Tanti anni di radio, di televisione e la scrittura, quale desiderio vorresti realizzare oggi? Mi piacerebbe poter raccontare una partita della Nazionale femminile di calcio, ne sono un appassionato. Sarebbe ora di sdoganare il calcio dal sostantivo maschile. Basterebbe aprire gli occhi per poter vedere, in un qualsiasi stadio, il gran numero di donne che segue il calcio e che probabilmente sono anche più competenti degli uomini. Sono fiducioso e auspico un professionismo del calcio femminile.
Ed anche io ho fiducia, confido di riascoltare la voce di Riccardo mentre trasmette le azioni di una partita, di rivederlo con le cuffie in testa e di sognare mondi con le sue parole. In quel bellissimo mistero che è la radio.
“Radio, qualcuno ancora ti ama […] speriamo che tu non ci lasci mai vecchia amica, abbiamo bisogno di te come di tutte le cose buone.” Radio Ga Ga – Queen