“Il pacco da giù”
Dopo questa quarantena è arrivata la libertà di muoversi e nel ponte del due giugno ho rivisto i miei genitori come tanti avranno fatto.
Martedì quasi come un déjà-vu ho rivisto l’immagine di me ventenne e i miei alla stazione, con il pacco in partenza contenente ogni ben di Dio accuratamente costruito da mamma e incartato e incastrato da papà.
L’incastro è una cosa fondamentale in quanto entrano più cose possibili, credo che il gioco del “Tetris” sia nato così, da qualche genitore terrone che incartava il famosissimo “pacco da giù” per il proprio figlio lontano.
Mi ha fatto ricordare me e mia sorella che attendavamo alla stazione uno scatolone, come tanti, ma non so perché il nostro lo riconoscevamo da lontano, c’era quel bel segno distintivo che sapeva di papà, solitamente era un “L’OREAL PARIS” (perchè papà è parrucchiere) e incisi i nostri nomi sopra con la calligrafia di mamma che già profumava di casa.
Dentro era una sorta di lampada dei desideri che spaziava dalle melanzane sott’olio di papà, al suo basilico, cipolle rosse e zucchine, alla soppressata di mio cognato, alla zuppa di lenticchie divisa in sacchetti Cuki pronti da essere congelati, all’ultimo modello di pinzetta per le sopracciglia comprata da mia madre, fino ad arrivare alla nuova maschera per capelli alla lavanda, pepe rosa, semi di papaya, aloe vera, avocado del Guatemala e quale altra diavoleria di mix di odori che più le dicevi che non lo avresti mai comprato e più lei te lo ficcava dentro al pacco per fartelo provare.
Dentro c’era forse il 50% di roba che avresti potuto comprare anche tu in un qualsiasi supermercato ma loro ci avrebbero messo anche l’anima sgretolata a pallini come il polistirolo pur di farla entrare e ficcarci più possibile… ed ho la certezza che anche l’anima ci fosse lì dentro.
Avrebbero smontato casa pur di darti qualsiasi cosa e quando gli dicevi: “abbiamo tutto tranquilli, non ci serve!” Loro lì a non crederci perché c’era una gara all’ultimo complimento per non togliere qualcosa all’altro.
Ricordo ancora uno scatto fulmineo di mio padre verso la macchina per portarmi le sue uova messe in ordine di freschezza, dalla più recente a quella da consumare prima, tutte incartate singolarmente nello Scottex (con la sua invidiabile precisione) o mia madre al telefono quando mi chiamava mentre ero già in viaggio e piangeva perché mi ero dimenticata qualcosa, in quelle sue lacrime non c’era solo la dimenticanza ma quella tristezza che già l’attanagliava di essere già partite nuovamente.
In questi pacchi, buste e sacchetti c’è l’abbraccio incartato di genitori lontani che vedono andar via i loro figli e con loro una parte di sé stessi, perché la casa è vuota, perché li vedono liberi e soli difronte a una città nuova, li immaginano come nomadi in difficoltà. C’è la loro stretta ferrea di protezione, lo sguardo presente che in qualsiasi strada del mondo si percorrerà loro saranno sempre lì, con le loro carezze, con i loro discorsi, con le loro attenzioni che si tramutano anche in questo pacco, un modo terrone per dire siamo lì, anche se tu non sei più sotto questo tetto.
Era il modo più affettuoso per farci sentire a casa anche a chilometri di distanza.
Martedì due giugno ho rivisto questa immagine e la cosa più assurda è che ora vivo circa a cento chilometri dai miei genitori e loro ripetutamente, ogni qual volta li vedo, si ostinano a prepararmi pacchetti e imbustarmi l’impossibile.
Ma è una semplice proporzione: un genitore sta ad “un pacco da giù” come un figlio sta alla voglia di tornare a casa.
Emanuela Impieri
Sono 7 anni che faccio pacchi e vero… concordo in pieno tutto quello che ho letto, e non ti dico la soddisfazione e la cura che ci mettiamo a prepararlo. Adesso in settimana preparo uno per Milano ma ti raccomando solo roba da mangiare 😀😀😀