I parchi a Milano: a ognuno il suo
Vengo da una regione che galleggia sul mare e da una città in cui si respira iodio ovunque. Arrivo in una regione incastonata in un prezioso nord-Italia e in una città in cui si respira…meglio non sapere cosa. Eppure è a Milano che ho scoperto un modo di vivere la natura diverso, in un posto a me sconosciuto e all’inizio da me anche bistrattato. Il preambolo mi pare sufficiente. Questo luogo magico è il parco. Termine che a Trapani esiste solo preceduto da “auto” e lì il ricongiungimento con la natura e il creato risulta difficile.
Quando sono arrivata a Milano (sempre in quella calda estate di quattro anni fa) ho trovato ristoro fisico ed emotivo proprio nel parco di fronte casa mia. Non uno dei più stimati in città. Sì perché anche su questo un po’ di snobbismo esiste: dove si trova, chi lo frequenta, che razze di cani vanno lì a espletare i loro bisogni sono tra i parametri per stilare la classifica dei parchi meneghini. Lassù, due gradini sotto l’Eden biblico, c’è Parco Sempione: un angolo verde di 47 ettari di superficie. E’ bello e lo sa. Castello Sforzesco, Arco della Pace, La Triennale, Arena Civica: si è preso tutto lui e con tutti questi “accessori” è facile essere fighi. Molto e variamente frequentato: dal giovane sportivo straniato dal mondo grazie – o a causa – dei suoi airpods al facoltoso avvocato in pensione a passeggio con il suo bassotto dallo sguardo fiero manco fosse un alano. Parco Sempione rappresenta bene la città, è imponente e si respira fermento e vita. E pure un po’ di smog, che comunque siamo sempre in centro.
Scendiamo di una posizione e troviamo i Giardini Pubblici Indro Montanelli, siamo in zona Porta Venezia. Meno presuntuosi del precedente ma sicuramente all’altezza del nome che portano. Se qui Indro Montanelli trascorreva ore amene, beh, forse una capatina la meritano. E infatti ogni tanto vado ma lo confesso: non sono mai entrata al Museo Civico di Storia Naturale o al Planetario che il parco ospita. Indro, perdonami, ma resto fuori su una panchina a farmi due selfie ché oggi più che la storia contano le stories. Rispetto al primo si tratta di un parco di dimensioni minori quanto l’ego dei suoi frequentatori. Qui bazzicano famiglie e bambini curiosi e trepidanti all’ingresso del planetario. Ho assistito a conversazioni tra padre e figlio quinquenne astrofilo, promettente stella della SAIt, con un entusiasmo che io da bambina avevo solo davanti al panificio davanti scuola. Sfornava delle pizzette che facevano toccare il cielo con un dito, inevitabilmente unto.
Facciamo un salto nella periferia della classifica e della città e arriviamo al Parco Lambro. Praticamente casa mia. Dimensioni importanti ma meno accessoriato degli altri. E’ un parco che bene racconta il mondo della campagna lombarda, con le sue cascine e una natura varia e affascinante a partire dal fiume omonimo. Niente musei, niente palazzi che contano ma uno spaccato di vita di periferia che lo rende un teatro incredibile e con una programmazione intrigante in tutte le stagioni. La prima volta che ci ho messo piede era luglio. Per non sentire le mancanza del mare mi sono messa in riva al fiume. Sono tornata a casa con degli sfoghi cutanei che sembravo La Pimpa. Tutto merito delle zanzare meneghine che -figa! – sono più efficienti che nel resto d’Italia. A quel punto mi sono ripromessa che non ci sarei mai più tornata. Infatti. Non ci sono più tornata se non in costume. Ogni estate sono lì, stesa sull’erba, unta d’olio come un panzerotto. Prove tecniche per le ferie al mare. Ma a farmi innamorare di questo posto è la sua vocazione al cibo, alla convivialità, alle grigliate spinte. E’ il parco in cui ho trovato un po’ di Sud. Nello specifico, Sud-America. C’è casa in quella allegra comitiva riunita all’ombra dell’ippocastano. Così, con l’odore di asado tra i capelli e tanta saudade nel cuore mi godo lo spettacolo. Quel poco che riesco a scorgere tra il fumo della brace.