La vita com’era prima
In una domenica di sole, nel pieno della famosa fase 2 che stiamo vivendo in Italia, mi sono (ri)trovata con mia sorella a parlare di tante cose non dette in queste lunghe settimane di distacco, sempre presi a parlare di tutto per non parlare di niente. Ci siamo lasciate andare un pò a quel diritto alla paura di cui parlavo una settimana fa, ai tanti sogni che speriamo di poter avverare e a qualche ricordo.
“Ma tu te la ricordi la vita com’era prima?” – le ho chiesto.
“Prima di cosa?” – mi ha risposto.
Questa contro domanda mi ha preso alla sprovvista: come prima di cosa? Prima che il mondo tutto si fermasse e prima che ci fermassimo noi, con lui. La vita di prima, quella fatta di così tante cose, fra impegni, doveri, compiti e svaghi, quella così piena che ci levava anche il tempo di respirare in certi giorni.
La vita com’era prima, fatta di una sveglia 5 giorni su 7 (nella migliore delle ipotesi), di traffico in macchina la mattina / il pomeriggio / la sera. Delle chiamate fatte proprio in quel traffico del mattino / pomeriggio / sera, perchè dopo e in mezzo c’era troppo, troppo da fare e vivere. Quella fatta di incontri e pranzi e cene, di abbracci e baci, di assembramenti, quando neanche sapevamo cosa volesse dire “assembramento”.
La vita fatta di lavoro per come lo hai sempre vissuto prima, il lavoro. Quello fatto di spostamenti e contatti, di chiamate e telefonate, di reperibilità, di confronti, di abbiocchi post pranzo e di pesantezza del lunedì, quello fatto di colleghi che non vedi da quella che sembra essere una vita (la vita di adesso), quel lavoro che hai maledetto in ogni forma e lingua e che ora, in certi giorni stretti dall’ansia ti manca come l’aria.
E le uscite? La fila al supermercato era al bancone del pane e alla cassa per pagare, quelle non ce le leverà mai nessuno, ma certo non c’erano file fuori per entrare, al più solo per parcheggiare nei giorni più pieni. Eravamo liberi di decidere quando e come uscire, avevamo il lusso di poter comprare un litro di latte anche alle 4.00 del mattino, decidendo dove andare e con chi, ammesso che qualcuno con noi lo volessimo davvero. Potevamo andare ovunque, entrare ovunque, fare qualsiasi cosa fuori dalle mura di casa: una passeggiata in centro mettendo i panni dei turisti, il giro della città in macchina come palline impazzite di un biliardo tanto ci riempivamo il tempo di cose da fare, andare a mangiare e bere fuori e l’unico dubbio era se ci andasse più un piatto di pasta o una pizza.
Vedere i nostri affetti stabili era il pane quotidiano del nostro vivere e la video chiamata delle 18.00 era in realtà la sigaretta sotto casa a fine giornata, il pranzo della domenica, il caffè occhi negli occhi. Uscivamo davvero con chi volevamo, senza remore e anzi con l’ardente e sano desiderio di essere presi per mano, abbracciati, baciati, con quella paura sana che solo i sentimenti tirano fuori e senza il terrore del distanziamento sociale, delle autocertificazioni e dei controlli.
Potevamo andare a ballare sotto il tetto di una discoteca o sotto un cielo fatto di stelle, a cantare ad un concerto, a gridare allo stadio abbandonandoci senza vergogna ad una passione. Ci sfogavamo come meglio volevamo, fra un allenamento in palestra e una corsa verso il mare. Potevamo viaggiare, fisicamente ma anche con quella fantasia che si è un pò spenta dentro di noi.
La vita come era prima era piena ma allo stesso tempo vuota.
Vuota di quella consapevolezza che solo il tempo da riempire ti dona. Vuota di quel non dare tanto – se non tutto – per scontato come, ammettiamolo, facevamo. Vuota di quella gratitudine che spero ognuno di noi sarà in grado di trovare in quel punto a metà fra la vita com’era prima e la vita come è adesso.
Aspettando a cuore aperto la vita che verrà.